Plurilinguismo precoce e identità: conseguenze attese e inattese
Su l’Adige di mercoledì 25 febbraio Stefania Cavagnoli, docente dell’Università di Roma Tor Vergata, si pronuncia in modo incondizionato a favore del trilinguismo. Il plurilinguismo sarebbe del tutto normale; nel mondo la maggioranza degli uomini e delle donne sarebbe plurilingue; chi lo critica sarebbe vittima di pregiudizi, dato che la scienza dimostrerebbe che il pluringuismo fa crescere le capacità intellettuali. E il modo migliore per diventare plurilingui è praticare più lingue il prima possibile.
Mi sono occupato del bilinguismo in Alto Adige molti anni fa, collaborando anche con Kurt Egger, quando, come ricorda Stefania Cavagnoli, vi erano ostilità da parte della SVP a consentire scuole materne bilingui, neppure agli italofoni che lo desideravano.
Ricordo che le conclusioni delle rassegne non delle “teorie”, come dice la Cavagnoli, ma delle ricerche empiriche scientificamente attendibili, portavano a dire che era importante e prioritario acquisire bene la propria lingua materna per non creare interferenze tra più lingue, che un bilinguismo precoce può certo avere successo nel far acquisire competenze linguistiche e nel far sviluppare capacità cognitive anche in discipline diverse, ma che ciò non valeva per chi è dotato di minore intelligenza verbale. In altri termini l’insegnamento precoce di più lingue favorisce i più intellettualmente dotati e sfavorisce chi invece lo è meno. Cosa sarebbe intervenuto negli ultimi decenni per far ritenere alla Cavagnoli che il livello di intelligenza non giochi più un ruolo?
Stefania Cavagnoli afferma che il plurilinguismo sarebbe condizione propria della maggioranza dell’umanità. L’affermazione mi sembra errata: la norma è che le persone pratichino una lingua, quella materna. A meno che la docente di linguistica applicata non distingua tra bilinguismo (pluringuismo) e diglossia, che per lo più riguarda la conoscenza contemporanea di lingua e dialetto. Questa sì è assai diffusa, con l’uso del dialetto nell’ambito delle relazioni primarie informali e l’uso della lingua in quelle secondarie e formali. Molti glottodidatti hanno ostacolato l’impiego del dialetto, espungendolo dall’insegnamento scolastico perché avrebbe danneggiato l’apprendimento della lingua nazionale. Ora le opinioni sono in parte cambiate, forse anche perché l’uso del dialetto in Italia e in Europa si è ormai fortemente ridotto, specie tra i giovani. A conseguire il miglioramento delle capacità ragionative e di astrazione che il bilinguismo precoce porta ai più dotati è comunque sufficiente anche la contemporanea conoscenza e l’uso di lingua e dialetto. E il risultato ulteriore sarebbe quello di mantenere elementi di identità locale che già su altri piani (valori, simboli) stanno scomparendo, identità senza la quale anche i sentimenti di appartenenza si indeboliscono.
Al riguardo, nelle indagini sociologiche che conosco, si registra come il migliore indicatore dei sentimenti di identità e di appartenenza, sia proprio la lingua usata. Il bilinguismo (e a maggior ragione il plurilinguismo) attenua i sentimenti di appartenenza e facilità la creazione di ambiti relazionali che attraversano diversità di appartenenze etniche e nazionali. Il proporre poi, come fa la Cavagnoli, che l’inglese diventi lingua veicolare (ossia quella usata per insegnare altre materie), non può che indebolire ulteriormente la forza della lingua materna e della lingua del vicino (il tedesco per i trentini), con progressiva loro riduzione al rango di “dialetto” europeo in un campo formale sempre più e solo “anglofono”.
E’ giusto che i trentini imparino a comunicare a livello globale avvalendosi dell’inglese, per ora la più diffusa lingua internazionale (come un tempo fu il latino), ed è giusto che un Trentino che voglia sviluppare la sua vocazione di area di confine tra area culturale tedesca e area culturale italiana, dia la priorità all’apprendimento, come seconda lingua, del tedesco. Nello scegliere le modalità con le quali pervenire a tale risultato si dovrebbero, però, considerare le condizioni poste dalle capacità intellettive verbali dei fanciulli e dei ragazzi e le conseguenze sui sentimenti di appartenenza delle popolazioni. L’autonomia ha fondamenti se alla base vi sono specificità di identità, delle quali sono elementi anche la configurazione degli ambiti relazionali, in rapporto di reciproco rafforzamento delle specificità delle appartenenze. Vogliamo trentini cittadini pronti a inserirsi nei mercati della società globale? Va bene procedere con purilnguismo a dominanza inglese (la lingua veicolare è la più prestigiosa). O vogliamo trentini capaci di multiappartenenza, ma con primato di identità trentina, seguito da identità italiana, europea e globale? La strada da percorrere è un’altra, valorizzando anche gli idiomi locali. Per politiche scolastiche e culturali a guida autonomista una riflessione al riguardo mi sembra necessaria.
Cordiali saluti,
Renzo Gubert