Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Cosa non convince del programma elettorale della lista Noi con l’Italia -UDC

Il Centro Popolare, come comunicato alla stampa e sul proprio sito web, ha deciso di sostenere alle prossime elezioni la lista con lo scudo crociato della DC nel suo simbolo, convinto che serva in Italia un partito che si ispira in modo esplicito al pensiero sociale cristiano. Ciò non vuol dire che sia convinto di tutti i punti programmatici di tale lista, alcuni dei quali coincidono con quelli della coalizione della quale Noi con l’Italia-UDC fa parte.

Non convince l’elezione diretta del Presidente della Repubblica; questi in Italia non ha funzioni di governo, come i Presidenti di altri Stati (Francia, USA, ecc.), ma funzioni di garanzia e di rappresentanza dell’unità nazionale. L’elezione diretta è molto divisiva e rende l’eletto figura di parte, mentre l’elezione parlamentare del Presidente con requisiti di ampio consenso rende più probabile che l’eletto sia figura di garanzia, di unità e di alto profilo.
Non convince l’abolizione del divieto di vincolo di mandato previsto dalla Costituzione; il parlamentare ha la sua dignità di uomo libero, libero di operare in scienza e coscienza per il bene comune. L’introduzione del vincolo di mandato rende il parlamentare succube di chi temporaneamente dirige il partito. La democrazia interna ai partiti non è garantita e per lo più non è praticata. Già la legge elettorale consegna indebitamente ai partiti la nomina dei parlamentari; aumentare la partitocrazia è un errore e lede la stessa democrazia.

In merito alle politiche per la famiglia, è contraddittorio chiedere contemporaneamente, come nel programma, la “tassa piatta” e il quoziente familiare, strumento utile solo per rimediare alla progressività delle aliquote che non tenga conto dei carichi di famiglia. Va invece chiesto, in regime di tassa piatta, ai fini di un più equo trattamento fiscale delle famiglie con figli a carico la deduzione dal reddito imponibile del minimo vitale necessario per ciascuna persona a carico.

Sorprendente infine, per una lista con lo scudo crociato, che tra gli obiettivi manchi un’azione di difesa della vita umana dal concepimento alla morte naturale, con la tutela reale degli esseri umani ancora nel grembo materno, combattendo l’aborto volontario, compreso quello eugenetico, e promuovendo politiche che rimuovano le cause del ricorso all’aborto. Sorprende che manchi anche la revisione della legge sulle disposizioni anticipate di trattamento, evitando che siano usate per eutanasia e suicidio assistito e potenziando, invece, i diritti a cure palliative. Nulla si dice, inoltre,a proposito del problema della crescente fragilità delle famiglie. Manca la promozione della stabilità della famiglia fondata sul matrimonio di uomo e donna, rivedendo le leggi che banalizzano il divorzio e quella sulle unioni civili, che rende di fatto equiparata alla famiglia la convivenza tra omosessuali, fino a consentire a magistrati di dare riconoscimento alla inumana pratica dell’utero in affitto, se usato all’estero.

Capisco che tutto non si possa dire in programma sintetico, ma certe dimenticanze segnalano mancate sensibilità, manifestate, invece, per altre questioni meno rilevanti per una lista di ispirazione cristiana. Mi auguro che durante la campagna elettorale la lista dello scudo crociato si faccia sentire su questi temi almeno quanto la Lega, Fratelli d’Italia e lo stesso Berlusconi (pur con qualche contrasto interno a FI). La sfida antropologica che attraversa le società occidentali non può essere confinata tra quelle secondarie per chi si fa rappresentare dallo scudo con la croce che fu simbolo di Sturzo. Degasperi, la Pira, Moro e tanti altri!

(inviato a l’Adige e non pubblicato)

Sistema elettorale per il Trentino – Alto Adige: il diavolo insegna al centro-sinistra trentino a far le pentole, ma non il coperchio

Molti i commenti sull’esito elettorale del 4 marzo, ma manca l’osservazione sulle conseguenze del particolare sistema elettorale previsto per il collegio plurinominale del Trentino Alto Adige. Per garantirsi l’alleanza con la SVP, il PD ha concesso un rovesciamento dei rapporti tra uninominale e proporzionale previsto in tutta Italia, con conseguenze evidenti specie per le elezioni al Senato. Non due terzi di eletti nel proporzionale e un terzo nel maggioritario, ma l’inverso.

La motivazione addotta è quella della garanzia di tutela della minoranza di lingua tedesca dell’Alto Adige/Suedtirol, ma si tratta di una bugia. Per tutelare la minoranza tedesca in un sistema proporzionale basterebbe la previsione, peraltro introdotta, di una soglia regionale (o anche provinciale) anziché di una nazionale. I collegi c’erano anche col Mattarellum, ma vi era un correttivo, lo scorporo, che lasciava spazio a forze politiche perdenti nei collegi. Invece SVP e PD hanno voluto “strafare”, non prevedendo lo scorporo e riducendo la quota di proporzionale. La SVP metteva fuori gioco liste concorrenti proposte da esponenti della minoranza germanofona, poteva guadagnare l’unico eletto al Senato con metodo proporzionale e scegliersi i parlamentari di lingua italiana (Camera e Senato) in provincia di Bolzano. Il PD godeva dei vantaggi, e ha potuto far eleggere persone estranee alla minoranza italiana dell’Alto Adige che avrebbero avuto difficoltà a farsi eleggere nei loro territori. Poiché, poi, il centro-sinistra autonomista (PD, UPT e PATT) pensava di vincere in Trentino, ha esteso, pronubi i suoi parlamentari, il sistema adottato per la provincia di Bolzano anche alla Provincia di Trento, riducendo in parallelo i posti di parlamentare da assegnare col proporzionale e quindi restringendo le possibilità di rappresentanza delle altre forze politiche.

Come dice il proverbio, il diavolo insegna a far le pentole, ma non il coperchio. La SVP e il PD hanno ottenuto quel che volevano in Alto Adige, ma in Trentino il centro-sinistra autonomista si è visto rovesciati i vantaggi pensati per la loro pentola nella pentola del centro-destra. E’ il centro-sinistra a pagare per la riduzione delle quote proporzionali e il centro-destra a trarre vantaggi. Non è male che sia stata data una lezione a chi ha voluto fare regole a proprio vantaggio! Riflettano Dellai, Panizza, Nicoletti, e gli altri parlamentari trentini (che pagano lo scotto) e rifletta anche la SVP, che dalla scelta “blockfrei” è passata all’alleanza strategica con il PD. Che non convenga anche al gruppo tedesco sudtirolese lasciare che la minoranza italiana possa scegliersi la propria rappresentanza parlamentare? E lasciare aperture di rappresentanza politica pluralistica anche al gruppo tedesco? Gli errori di ingordigia si potrebbero pagare!

Elezioni nazionali e prospettive per le elezioni provinciali d’autunno in Trentino

di il 17 Marzo 2018 in elezioni, partiti politici con 1 Commento

Che il centro-sinistra autonomista perdesse in Trentino tutti i collegi, uninominali e del proporzionale, salvo che una eletta nel proporzionale del PATT grazie ai voti in Alto Adige della SVP, nessuno se lo aspettava. Il PATT addirittura pubblicava un ultimo sondaggio che assegnava al centro-sinistra autonomista con largo margine non solo tutti i collegi, ma anche il collegio fino ad allora incerto di Pergine Valsugana. E poi c’è qualcuno, direttore di giornale, cui non interessa sapere se i metodi usati nel sondaggi danno risultati attendibili!

In autunno ci saranno in regione le elezioni provinciali, quelle che più contano per due Province che hanno larghi poteri di autonomia. E se finora pochi davano per probabile in Trentino una sconfitta del centro-sinistra, puntando a un’alternativa a partire da liste civiche di opposizione o in formazione, ora il quadro appare fortemente cambiato, nonostante ci sia chi si sforzi (il Presidente Rossi) di far considerare l’esito delle nazionali non ripetibile nelle provinciali, come altre volte in passato.

Si dice che il Trentino, per le nazionali, subisce il “vento” nazionale, ma che questo cesserà di soffiare in autunno per le provinciali. A parte che in autunno potrebbero esserci di nuovo elezioni nazionali, con “venti” che sarebbero rafforzati, sono troppo pochi i mesi che ci separano da ottobre perché il “vento” finisca. Il “vento”politico non è qualcosa di ineluttabile e poco prevedibile come quello meteorologico. Esso nasce con dinamiche più simili a quella della palla di neve che, in determinate condizioni, rotolondo lungo un pendio innevato, si ingrossa sempre più e diventa grande massa inarrestabile. Dapprima poche persone hanno il coraggio di dichiarare apprezzamenti per partiti o formazioni politiche non ortodosse secondo il “politicamente corretto”, imposto da gran parte dei giornali e delle TV, specie pubbliche. Ma, nelle condizioni adatte, alle poche persone se ne aggiungono altre, qualcosa si modifica anche in qualche emittente televisiva, in qualche articolo di giornale, e la moltiplicazione avanza, avanza sempre più, ciascuno rafforzato nei primi azzardi dalle dichiarazioni di altri. E si forma il “vento”. Se non si segue, si va controvento, e sono sempre meno coloro che, gente comune che chiacchiera con amici, conoscenti, dicono di contrastare il vento. Fin qui una mera constatazione sociologica e di psicologia sociale. Il rinforzo crescente di un’opinione diffonde quell’opinione fino a innescare fenomeni di conformismo dell’anticonformismo, dell’eterodossia, del politicamente “scandaloso”.

Improbabile che in pochi mesi tutto ritorni alla situazione precedente, soprattutto perché le condizioni che hanno favorito il sorgere del vento non sono eliminabili facilmente. Innanzitutto conta la voglia di cambiare. Da troppi anni comanda il centro-sinistra, che di fatto ha assorbito il PATT, disposto a perdere la sua parte più tradizionale. Da troppi anni si è consolidato un sistema di potere “parallelo” a quello formale, tramite società varie pubbliche e para-pubbliche, che sfuggono alle procedure di garanzia di imparzialità e di efficienza. Ricordo gli ultimi anni della gestione DC: non bastava aver amministrato tutto sommato bene. C’era voglia di cambiare, fino al punto che la DC, partito ancora di maggioranza relativa, aveva offerto sostegno a una leadership del PATT, tra l’altro restio ad accettarlo.Era un vento nazionale che spazzava il Trentino, trovando condizioni favorevoli. Non ci saranno PD, UPT, PATT di quasi-sinistra che tengano. La gente vuole cambiare. E i sindaci, che magari dovrebbero sentire obblighi di votare per chi ha dato loro risorse pubbliche per i loro programmi locali, faranno solo finta di sostenere le forze di governo provinciale, perché temono di essere spiazzati alle prossime comunali. Cose già viste.

Ma il “vento” non cambia solo per le forze di maggioranza di centro-sinistra; cambia anche per le opposizioni. La coalizione di centro-destra, specie attraverso la Lega, si è molto rafforzata e i vari movimenti civici dovranno prenderne atto. Non saranno più loro i “registi” dell’alternativa, ma le quattro formazioni politiche del centro-destra, Lega in primis. Certo i civici di opposizione e quelli in via di costruzione politica sono e saranno essenziali per una vittoria, che già per le nazionali deriva in parte anche dal loro sostegno al centro-destra, ma la strategia del costruire dapprima un nucleo civico e poi allargarlo al centro-destra è superata e non facilmente recuperabile.

I trentini sono in generale moderati, ma dubito che non valga anche per essi una legge di psicologia sociale che vede più propensi a giustificare un peccato se lo si è commesso personalmente. Votare Lega o M5S per un trentino moderato è un “peccato”, è uno strappo alla consuetudine. Nonostante che Di Maio non sia Grillo e Salvini non sia Bossi (quello giovane), votare i “grillini” o i leghisti va pur sempre contro la tradizionale moderazione. Il voto alla Lega è poi un peccato grave anche per molto clero cattolico. Chi vota Lega o centro-destra non accetta l’insistenza con la quale vescovi (compreso quello di Trento e il settimanale diocesano) e Papa predicano come dovere morale quello dell’accoglienza incondizionata, senza dare dignità di valore morale a scelte che cercano di raggiungere il bene comune anche nella regolazione e nel governo dei flussi migratori. Ma chi ha già peccato, tende ad essere più permissivo verso gli altri che compiono lo stesso peccato e tende a ri-peccare egli stesso. C’è scandalo per un Salvini che dice di credere nel vangelo e che mostra un rosario, anche se non si dice nulla degli inviti in chiesa a parlare di politica alla radicale Bonino e alla Boldrini, note per le loro posizioni su aborto, ideologia “gender”, utero in affitto, suicidio assistito ed eutanasia. La trasgressione e il gusto di farla, quindi, non si smorzerà per ottobre: il “vento” continuerà a soffiare.

7 marzo 2018

Tariffe elettriche ingiustificate per costruzioni rurali d’uso stagionale

Già tempo fa sui giornali locali sono state registrate lamentele, anche da parte mia, circa il prezzo dell’energia elettrica, pur per tariffe dette di “maggior tutela”. Ma nulla è cambiato, né a livello nazionale né provinciale né a livello locale, almeno dove l’azienda elettrica è comunale o di consorzio tra più comuni, come a Primiero.
Mi è arrivata oggi la bolletta per l’energia elettrica in un maso sito a Primiero, allacciato alla rete ACSM per una potenza di 1,5KW. Per consumo zero, nell’ultimo bimestre del 2017 l’importo da pagare è di euri 40.78. Ho chiesto alla moglie, che tiene le bollette pagate, di farmi il calcolo di quanta energia è stata consumata nel 2017 e di quanto è il totale delle bollette. I KWh sono stati 295 e l’importo totale delle bollette euri 289,92, quasi tutti nel quarto bimestre (luglio ed agosto). Il costo per KWh è stato di quasi un euro a KWh (esattamente0,9828), una cifra assurda, e sarebbe tariffa di “maggiore tutela”! Solo meno di un quarto è il prezzo dell’energia: il resto sono gabelle varie (la maggiore definita misteriosamente “oneri di sistema”), fatte pagare anche a consumo zero, come è accaduto per 4 bimestri su sei.
Possibile che l’autonomia provinciale e l’autonomia aziendale ACSM non consenta di cambiare una situazione che non tiene conto della differenza tra una seconda casa e una costruzione rurale al servizio di un prato di montagna, il cui sfalcio è ritenuto meritevole di incentivazione per garantire la cura dell’ambiente e del paesaggio?
Si aggiunga che sulla stessa costruzione rurale viene fatta pagare l’imposta patrimoniale a tariffa elevata, come seconda casa (anche se non v’è nemmeno una strada comunale percorribile con mezzi) e soprattutto la tariffa per un servizio di raccolta rifiuti solidi urbani, del tutto mancante, per cui le pochissime immondizie prodotte nelle poche settimane d’uso sono portate a casa propria, per la quale il servizio è già abbondantemente pagato.
Non è tempo che chi ha responsabilità di ciò si muova?

Chiedere la modifica delle regole europee non significa essere contro l’Unione Europea

di il 1 Febbraio 2018 in COMMERCIO, Europa con Nessun commento

Lettera a Pierangelo Giovanetti, direttore de l’Adige:
il suo editoriale su l’ADIGE del 28 gennaio mette giustamente in guardia i lettori dal sottovalutare, nelle loro scelte elettorali del 4 marzo prossimo, il tema della costruzione di un’Europa unita, cui si avviano a dare nuovo impulso Francia e Germania. I veri sovranisti sarebbero coloro che operano per un’Europa più unita, non coloro che vogliono tornare a rafforzare le sovranità degli stati nazionali.
Così come scritto, il suo editoriale non nutre critiche verso l’Unione Europea come la conosciamo, ma è critico verso chi chiede una revisione del modo di operare dell’Unione, mettendo in primo piano malintesi interessi nazionali. Tra i programmi dei partiti per quanto se ne sa, solo quello dei Radicali di Emma Bonino adotta tale prospettiva, forse nella speranza di ripetere in Italia almeno una parte del successo avuto da Macron in Francia.
Vorrei portare qualche elemento per ulteriori valutazioni.
Il primo è la constatazione che i processi di integrazione di realtà economiche a diverso grado di vantaggio o svantaggio competitivo portano necessariamente vantaggi alle parti più efficaci nella competizione e svantaggi allee altre. Lo ha dimostrato in Italia il processo di unificazione dell’Italia e lo sta mostrando la politica di globalizzazione degli ultimi decenni. Senza adeguate compensazioni per le aree svantaggiate, più integrazione porta a più disuguaglianza. Ma queste compensazioni non vengono da sole, bisogna negoziarle da parte degli Stati nazionali deboli (e delle regioni deboli).
Il secondo concerne il ruolo delle istituzioni democratiche, deputate a rappresentare e perseguire il bene comune. Più si sale nella scala di organizzazione collettiva, più i meccanismi democratici si indeboliscono rispetto agli interessi delle élites finanziarie e della produzione ad alto valore aggiunto. Difficile sostenere che le lobbies che agiscono a livello globale favoriscano il bene comune globale o europeo. E i poteri politici dell’Unione Europea non sembrano immuni dall’influenza delle lobbies finanziarie.
Il terzo concerne il vincolo, che Lei richiama, dei limiti posti dal debito pubblico. Sensato richiamare l’Italia a rispettare le regole europee su deficit e debito, ma senza mutare tali regole si rischia il blocco delle economie dei paesi meno avvantaggiati. Il debito pubblico va usato come variabile strumentale nel governo della congiuntura economica, come ha insegnato Keynes, ma l’unico modo per poterlo fare è sottrarre agli interessi finanziari che controllano le banche centrali, nazionali ed europea , il potere di emissione di moneta. Non può farlo, con l’euro, la singola banca centrale nazionale, ma può farlo una Banca Centrale Europea che emette moneta al servizio delle politiche economiche a scala europea (che include anche politiche economiche nazionali con un certo grado di autonomia decisionale, secondo il principio di sussidiarietà). Senza una sovranità monetaria pubblica europea più integrazione condizionata da vincoli fissi al bilancio degli stati, significa condannare le economie meno avvantaggiate. Il debito pubblico esiste solo perché qualcuno emette moneta e la dà in cambio di titoli di debito. Per la spesa pubblica il debito non ha ragione di esistere; servono solo regole, se l’emittente moneta è pubblico.
Quarto elemento concerne il rispetto del principio di sussidiarietà, previsto nei trattati europei, ma di fatto soccombente rispetto ad altri principi “centralisti”. Più integrazione va bene solo per le attività di pubblico interesse che non possono essere svolte in modo efficace ed efficiente a livello nazionale o sub-nazionale. Si pensi ad es alla difesa e alla politica estera. Ma l’Unione Europea si è dedicata soprattutto ad attività che possono tranquillamente essere lasciate all’autonomia di stati, regioni, comuni, aziende e individui. Si può (e si deve) dire più integrazione, ma si può (e si deve) anche dire più autonomia, più rispetto delle singolarità culturali e politiche dei paesi e dei popoli che compongono l’Europa.
Chiedere, allora, che si riveda il funzionamento delle istituzioni europee (comprese quelle della Corte di Strasburgo, che talvolta agisce come istituzione che vuole regolare la morale, specie nel campo del diritto alla vita e della famiglia) non può essere solo oggetto di preoccupazione.

Reticenze nell’ammettere di aver indebitamente accreditato l’attendibilità di un’indagine sulla religiosità

Lettera al direttore del giornale Trentino Alberto Faustini,
leggo sul Trentino del 24 gennaio la lettera da me inviatale quasi una ventina di giorni fa in merito a quanto il giornale da Lei diretto riportava, il 7 gennaio, con grande rilievo, dei risultati di un’indagine sulla religiosità in Italia condotta da Community Media Research e la ringrazio. Ho dubitato che intendesse pubblicarla, date le critiche che avanzavo.
Avrei la colpa di non conoscere (o di non voler conoscere, lei sospetta) il prof. Marini, direttore dell’agenzia di ricerca. Sul sito web dell’agenzia che dirige apprendo che è un professore associato a Padova, con multiforme attività di ricerca e come giornalista. Sarà a causa della mia avanzata età che mi porta a non partecipare che occasionalmente a convegni di sociologia dove si conoscono i colleghi, ma non sono uso a valutare i risultati di indagini dal nome di chi le dirige.

Altra colpa che mi addebita, quella di non essermi informato sul metodo seguito dalla ricerca di Community Media Resarch, pubblicato sul sito della stessa. Le sarei grato se mi fornisce l’indirizzo web giusto; su quello che ho trovato, intitolato proprio all’agenzia, ho trovato solo articoli di giornale. Del resto, a merito del Trentino, avevo notato che le notizie sul metodo erano state pubblicate in calce all’articolo sui risultati, cosa non fatta frequentemente.

Lei specifica, nella nota di commento alla mia lettera, il significato delle sigle sulle tecniche usate per le interviste, tutte fatte via mezzi elettronici. Mi fa rilevare che la tecnica CATI (intervista telefonica) è usata per ovviare ai difetti degli altri metodi via computer. Peccato che non garantisca la non selettività. Pensi a quante telefonate riceviamo quasi quotidianamente da persone non conosciute; il più delle volte non si risponde, infastiditi. E quanti non sono negli elenchi, o hanno solo un portatile? E del resto che le persone intervistate siano state poco più di un decimo delle persone contattate è la riprova più evidente dell’operare di fattori selettivi. Se si aggiunge, poi, la necessità di ponderare i risultati per rispettare delle quote, riproporzionamento reso necessario dal non rispetto della stratificazione della popolazione secondo alcuni caratteri, non resta che insistere sulla assenza di garanzie probabilistiche sulle rappresentatività del campione e sul margine di errore. Mi sarei atteso che almeno il numero di intervistati nel Trentino -Alto Adige, meglio se distinto per italiani e tedeschi, lo avesse scritto nella sua nota. Non si vuole renderlo noto? Che sia più alto che in altre indagini nulla toglie alla mia obiezione. Se il numero è molto basso, come del tutto probabile in un campione nazionale, presentare solo percentuali serve a ingannare il lettore; l’affidabilità di quelle percentuali è propria bassissima.

Da ultimo rispondo alla sua curiosità: come mai mi sono interessato solo a questa ricerca di Community Media Research, dato che il Trentino ha pubblicato anche i risultati di altre indagini. La risposta è la più semplice: mi occupo di valori, anche in serie indagini internazionali, da oltre quarant’anni e sono stato responsabile per l’Italia dell’European Values Study e del World Values Survey. Il valore che, in base ai dati, più di altri ha conseguenze su altri orientamenti di valore è la religiosità. L’agenzia di ricerca che Lei segue si occupa per lo più di argomenti che sono assai periferici per i miei interessi scientifici. Ovvia, quindi, l’attenzione ai risultati di una ricerca sulla religiosità, tanto più che presenta risultati come “rappresentativi” con stretto margine di errore. Purtroppo, invece, l’affidabilità di quella ricerca non è statisticamente controllabile. Per i gruppi di ricerca scientifica seria, come quello citato dell’EVS, vi è un team di metodologi della ricerca tra i più competenti in Europa e per massimizzare l’attendibilità dei risultati ha fatto seguire procedure adeguate (le più adeguate possibile) non quelle che costano meno.

Mi dispiace che abbia preso un po’ di traverso i miei rilievi. Le assicuro che li ho fatti “in scienza e coscienza”.

Malcostume di pubblicare risultati di sondaggi vantandone l’attendibilità scientifica

Al direttore de l’Adige Pierangelo Giovanetti,
Lei nell’editoriale di domenica 21 gennaio giustamente denuncia la lamentevole situazione della comunità trentina nel garantirsi buona capacità politica a livello nazionale nella scelta delle candidature al Parlamento. Vorrei dirle che le cose non vanno diversamente quanto ad attendibilità delle notizie che vengono diffuse su giornali e riviste in merito a risultati di ricerche cosiddette “scientifiche” in campo sociologico.
Sui giornali, anche locali, non è raro imbattersi in ampi spazi dedicati alla presentazione di risultati di indagini sociologiche, in particolare quando questi possono colpire l’attenzione dei lettori o confermerebbero dinamiche sociali gradite a direttori ed editori.
Quasi mai i giornali si fanno carico di rendere noti i metodi di ricerca impiegati (campioni e tecniche di somministrazione di questionari o interviste) e quando lo fanno perché chi ha fatto l’indagine vanta attendibilità dei dati, spesso proprio la metodologia impiegata dimostra esattamente il contrario, ossia l’inattendibilità dei risultati. Se lo si fa rilevare al direttore, questi ringrazia, ma non pubblica i rilievi critici.
Ho avuto modo di curare, in posizione di responsabilità per l’Italia, più rilevazioni novennali dell’indagine sui valori dell’European Values Study e una rilevazione del World Values Survey e sono venuto a diretto contatto con il mondo delle varie “agenzie di ricerca” che si offrono di eseguire rilevazioni per conto di committenti. Alcune si rifiutano di farle seguendo criteri di affidabilità scientifica e altre accettano di farlo, ma con costi assai più elevati del normale. I preventivi sono così alti che anche committenti scientifici (università, enti di ricerca) rinunciano talora all’attendibilità dei risultati.
L’attendibilità (sempre probabilistica), di una survey, studiata dalla metodologia della ricerca e dalla statistica inferenziale, si basa su requisiti di base senza i quali nulla possono dire tali discipline: la principale è la casualità con la quale si scelgono le persone da intervistare (o altre entità delle quali si studiano i caratteri, come ad es. i comuni). Anche se si parte da un campione rappresentativo, le procedure possono portare ad alterarla in modo irrimediabile. In un’indagine nazionale cui un quotidiano ha recentemente dedicato attenzione, per es. su 13.413 contatti con persone, solo 1561 sono andati a buon fine, ossia poco più del 10%. Non si dice se le oltre tredicimila persone contattate siano state scelte con criteri di casualità (se ne può dubitare), ma anche lo fossero, i fattori selettivi intervenuti, per cui solo una persona su 10 è stata poi inclusa nel campione, toglie agli intervistati qualsiasi rappresentatività controllabile scientificamente.
Nella stessa indagine, come in moltissime curate da agenzie di ricerca, si usano, poi, sistemi di intervista tramite mezzi elettronici (telefono, posta elettronica, altri metodi con uso di computer e smartphone), che già da soli implicano una netta selezione degli intervistati, privilegiando i più istruiti, i più giovani, i più reperibili. Altro metodo quello di andare per strada o di casa in casa scegliendo persone che si incontrano o che sono reperibili e disposte a spendere parte del proprio tempo per l’intervista. Si stabiliscono quote di persone da intervistare per sesso, età, forse istruzione, ma ciò non elimina la selettività delle persone. Si ponderano i risultati in modo da rimediare ad es. alle basse quote intervistate di alcune categorie di persone (per sesso, età, istruzione, cittadinanza), ma anche ciò non rimedia al fatto che le minori quote relative ad alcune categorie non siano rappresentative. Non è che, ad es, raddoppiando o triplicando il peso dei pochi anziani intervistati si considerino gli anziani che non hanno computer o smartphone, ma essi possono avere opinioni e situazioni diverse dagli altri. Non rappresentativi, quindi, i risultati e ridicolo calcolare margini massimi probabilistici di errore sulla base della scienza statistica.
Altro errore nascosto e non rilevato è il riportare dati di un’indagine nazionale, sezionandola per regione o per provincia. Si presentano percentuali, senza dire che al di sotto di certe numerosità e in carenza di rappresentatività regionale o provinciale, quei dati non sono affidabili. La buona rappresentatività, fosse anche garantita a livello nazionale, non lo è a livello infra-nazionale, salvo che le numerosità e i criteri di campionamento e di rilevazione non fossero stati previsti con tale scopo, fatto di solito non previsto per indagini nazionali per gli alti costi. E per il Trentino Alto Adige i subcampioni sono così piccoli da non consentire attendibilità alcuna. Eppure si pubblicano e se ne vanta l’attendibilità.
In periodo di frequente uso di indagini sulle preferenze elettorali, un’avvertenza in proposito ai lettori mi sembra utile. La sensibilità di agenzie di rilevazione agli interessi di chi le paga è più che possibile, e. come si sa, chi le paga sa che nella vita sociale operano meccanismi di “profezia che si autoadempie”.

L’uso del termine razza non implica razzismo; l’ibridazione delle razze non è necessariamente un obiettivo da condividere

di il 19 Gennaio 2018 in comunità, etica pubblica, migrazioni con 3 Commenti

In questi giorni vi sono state molte reazioni di scandalo per l’uso, in una trasmissione radiofonica, della parola “razza” da parte del candidato della Lega per la Presidenza della Regione Lombardia. L’accusa è di razzismo, avendo egli espresso il timore che un’immigrazione incontrollata, senza limitazioni, possa portare la “razza bianca” a diventare minoranza in Europa.
Al di là della fondatezza dell’affermazione (essa dipende dall’orizzonte temporale che si assume e dall’andamento delle economie e delle demografie), le reazioni, anche al netto delle strumentalizzazioni tipiche di un periodo di campagna elettorale, confermano una difficoltà italiana (e non solo, anche tedesca) ad usare il termine “razza”, certamente dovuta alla criminale persecuzione su base razziale, specie anti-ebraica, realizzata dal nazismo e che ha trovato parziale rispondenza anche nell’Italia dell’ultimo periodo fascista.
Nelle indagini sociologiche e nel linguaggio sociologico il concetto di razza è usato normalmente. Nel mondo anglosassone e nordamericano il termine “race relations” (relazioni razziali) designa anche una disciplina universitaria di insegnamento, oltre che sezioni di associazioni scientifiche di scienze sociali. L’uso del termine ”razza” non implica l’essere razzisti, quindi. Lo è chi su base razziale stabilisce diversità di stato giuridico, come è avvenuto nel XX secolo in Sud Africa o negli stessi Stati Uniti, o , in senso più lato, non riconosce a tutti gli uomini, indipendentemente dalla razza o dal colore della pelle, la medesima dignità.
Che l’uso del termine razza da parte di un politico contraddica il “politicamente corretto” in Italia non significa che le differenze razziali non siano di fatto tema oggetto di attenzione anche da parte di coloro che, anziché dirsi preoccupati per la crescente quota di non bianchi, si dicono a favore della “ibridazione”, sostenuta in questi giorni anche da autorevoli ecclesiastici, che altro non è che il risultato di riproduzione umana derivante da genitori di razza diversa. Parlare di ibridazione presuppone che ci siano uomini e donne diversi per razza che procreano insieme.
C’è poi chi considera razzista chi usa il termine razza perché in realtà biologicamente si constatano “continua” di caratteri tra le cosiddette “razze”, per cui le “razze” biologicamente non esisterebbero. Lo stesso colore della pelle, il carattere più evidente della differenziazione razziale, mostra una grande gradualità di sfumature, e non solo nei casi di “ibridazione”.
Nessun motivo per dubitare delle ricerche scientifiche in campo biologico-antropologico, ma, come dicono due autorevoli padri della sociologia, come Thomas e Znaniecki, anche se la “definizione di una situazione” fosse non corrispondente alla realtà, essa ha conseguenze reali, e l’esistenza di differenti razze umane fa parte in tutta l’umanità della “definizione della situazione”. Che i confini tra razze non siano netti non smentisce, peraltro, il fatto che tra bianchi, neri, gialli e rossi (per usare termini di uso comune) vi siano differenze riconoscibili. E da quando mondo è mondo è altresì noto che in generale i simili amano stare con i propri simili e tra i criteri di somiglianza vi sono lingua, costume, tradizioni, religione, etnia o nazione, status socio-economico e anche colore della pelle o conformazione somatica (dai piccoli pigmei e ottentotti ai glabri gialli, ai robusti mongoli ai longilinei nord-europei e negri nilotici dell’Africa centro-orientale e così via.
C’è chi reputa insopportabile vivere con i propri simili perché ama avere diversità attorno a sé? Legittimo. Ma non imponga le sue preferenze a tutti. E’ sufficiente garantire a tutti uguale dignità, che non implica mescolanze e indifferenziazioni delle collettività che si organizzano per provvedere al loro comune futuro.

Immigrati: accoglienza incondizionata nuovo comandamento per i cattolici? Lettera ad Avvenire, quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana

di il 14 Gennaio 2018 in etica pubblica, migrazioni, religione con 2 Commenti

al Direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio
Avvenire, insieme a larga parte delle autorità ecclesiali, a cominciare da Papa Bergoglio, non cessa di richiamare i cristiani e le autorità civili all’accoglienza di coloro che lasciano la propria terra in cerca di un futuro migliore. Evidente il riferimento, tra gli altri, ai criteri, secondo il racconto evangelico, del giudizio di Dio l’ultimo giorno o al comandamento dell’amore del prossimo.

D’altro lato sempre le autorità ecclesiali hanno richiamato e richiamano i cristiani al dovere di contribuire al perseguimento del bene comune, anche tramite l’impegno politico. Risulta assai dubbio che il bene comune, sia nelle società di partenza che in quelle di arrivo dei migranti, consista nel non regolare i flussi di persone. E regolare implica anche stabilire dei filtri, quanto meno in entrata. E stabilire dei filtri in entrata significa non accogliere, respingere, accogliere per poi rimandare indietro. Inoltre il perseguire il bene comune richiede anche un impegno per lo sviluppo di tutti i popoli (“Populorum progressio” di Paolo VI) in modo che sia rispettato il diritto a non dover emigrare, diritto richiamato non spesso da Papa Bergoglio, ma che lo fu diffusamente da parte dei parroci e dei vescovi all’epoca dell’emigrazione italiana a cavallo tra XIX e XX secolo, che rimproveravano gli amministratori pubblici di non essere attivi nel creare le condizioni per evitare decisioni migratorie.

Infine vi è la questione del rispetto della legalità. Non vale per chi non rispetta le regole fissate per poter immigrare? Va da sè che nel caso di rifugiati l’unica legge è quella dell’obbligo di soccorso, ma non si ha nulla da dire verso il costume di rivendicare lo status di rifugiato in mancanza dei presupposti o quello di inviare i propri figli minori, alla soglia della maggiore età, per godere dello status di “minore non accompagnato”?

Sarebbe un aiuto ai laici cristiani, e non solo a quelli impegnati in politica, se le autorità ecclesiali e lo stesso Avvenire spiegassero come si possono comporre i diversi criteri di comportamento, tutti fondati sui principi cristiani. E’ stato fatto per adattare i principi di fratellanza universale all’economia di mercato (si veda ad es. l’annosa questione degli interessi sul capitale prestato). Possibile che non si possa fare per adattarli all’esigenza di governare i flussi di popolazione?

NB Lettera non pubblicata finora; è la seconda dopo che alla prima Tarquinio mi ha telefonato lamentandosi delle mie critiche. (Sono abbonato da molti anni ad Avvenire e non uso disturbare il giornale, ma la sua unilateralità sul tema immigrazione è ormai insopportabile)

Democrazia in corruzione: autoritarismo partitico (l’esempio del M5S) e responsabilità dei giornalisti

Al Direttore de l’Adige Pierangelo Giovanetti,
il suo editoriale su l’Adige di domenica 31 dicembre coglie forse la principale delle questioni attinenti al sistema politico italiano e dei paesi europei: la vitalità delle convinzioni democratiche. Non che manchi il sostegno verbale alla democrazia, ma con il termine “democrazia” si mascherano atteggiamenti che la minano in profondità.- Lei porta alcuni risultati di ricerche demoscopiche fatte negli USA. Nell’ultima indagine dell’European Values Study (che si svolge con periodicità novennale e che ha visto l’Università di Trento come responsabile per l’Italia, da ultimo assieme alla Cattolica di Milano) la situazione risultava un po’ meno preoccupante per quanto concerne il sostegno a governi militari o esplicitamente autoritari, ma non altrettanto si può dire per governi di esperti che non debbano fare i conti con i parlamenti. E’ la corruzione tecnocratica del sistema democratico, a parole sempre sostenuto, ma svuotato.
Lei vede come cause rilevanti di tale fenomeno la fragilità del sistema elettorale, che “non è in grado di trasformare in linea di governo un consenso frammentato” e l’interesse di sistemi autoritari orientati aa accrescere la loro influenza internazionale (in primo luogo la Russia di Putin) a destabilizzare l’Unione Europea, i suoi paesi e più in generale l’Occidente. Dubito che un sistema elettorale sia in grado di trasformare un consenso frammentato in governabilità, se vuole rimanere democratico, vale a dire in grado di rappresentare le opinioni dei cittadini. Il sistema “italicum” voluto dal PD voleva fare quanto Lei auspica, ma la Corte Costituzionale lo ha giudicato non democratico.
Accanto a disegni di leader di sistemi autoritari , dei quali Lei riferisce (cause esterne), vi sono peraltro altre cause interne da porre all’attenzione di chi ama la democrazia, e di queste proprio il sistema dei mezzi di comunicazione, giornali compresi, portano responsabilità. L’inneggiare alla “morte delle ideologie”, divenuto di moda dopo la caduta dei regimi comunisti dell’Este Europa, altro non fa che privare il sistema democratico di un retroterra culturale stabile su cui basare le scelte elettorali e di partito. Il sistema politico, il voto, si è fatto “liquido” per dirla alla Bauman (e si rimedia con l’autoritarismo e il leaderismo) Il sottolineare da decenni la governabilità a scapito della rappresentatività ha svuotato le assemblee elettive (dal Comune all’Unione Europea) a favore del potere di “capi” (dal sindaco ai capi di governo) che condiziona pesantemente il loro ruolo.
Ultimo esempio, l’attacco alla libertà dei parlamentari previsto nelle ultime decisioni statutarie e regolamentari del Movimento 5 Stelle. Il nominato leader Di Maio promette che farà dimettere dal Parlamento gli eletti che “cambiano casacca” (e non solo per gli eletti del M5S, per tutti gli eletti), e che darà multe salate a chi vota in dissenso. Il massimo del partitismo autoritario, sintomo della mancanza di coesione di partito o di movimento su base di condivisione di valori e di loro declinazione politica (ideologia). Molti “comunicatori” dei mezzi di comunicazione non hanno fatto altro che gettare fango sui parlamentari che hanno “cambiato gruppo”. La colpa era sempre dei parlamentari, che avrebbero tradito gli elettori. Non si sono mai chiesti se il cambiare gruppo o il votare in dissenso non sia da imputare, invece, allo stesso partito o gruppo parlamentare, che ha cambiato posizione politica e che può, esso, aver tradito i suoi elettori. Chi esce dal gruppo o chi vota in dissenso può, egli, averlo fatto per rispetto degli elettori. Ricordo la mia esperienza nel gruppo CDU, poi confluito nell’UDR, che la sera si esprime per non sostenere il nascente Governo d’Alema e la mattina dopo si trova nella maggioranza di D’Alema con il proprio capogruppo al Senato ministro dello stesso Governo. Il mio dissenso e poi la mia uscita dal gruppo UDR (che mi aveva emarginato, privandomi dalla sera alla mattina di ogni ruolo nelle Commissioni) erano un tradire gli elettori o lo era la decisione di un capo, notturna e non assunta democraticamente di cambiare collocazione politica?
Quanti commentatori sui giornali o sul radio-TV hanno stigmatizzato l’autoritarismo fortemente antidemocratico delle nuove regole del M5S? E’ giusto che un parlamentare stia ai deliberati del partito e del gruppo cui appartiene e con il quale è stato eletto (salvo casi di obiezione di coscienza), ma ciò vale solo se le decisioni di partito e di gruppo sono state assunte con metodo democratico. Ma quanti partiti e gruppi sono veramente democratici? Ma per lo più si tace, nonostante la violazione di una norma della Costituzione.
La democrazia è indubbiamente in pericolo e l’allarme lanciato dal suo editoriale è prezioso avvertimento, ma per trovare le cause del pericolo e rimuoverle serve anche un esame di coscienza dei comunicatori sociali, per vedere se al pericolo non abbiano contribuito loro stessi.

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