Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Concerti in grandi “arene”: strada di rafforzamento della massificazione veleno dell’autonomia

L’Adige del 12 febbraio pubblica un ampio intervento del consigliere provinciale Alessio Manica, del PD, che enuncia le inopportunità dell’intervento della Provincia, in precedenza evidenziate anche da altri scritti già pubblicati, per costruire la Trento Music Arena per il concerto previsto a maggio di Vasco Rossi, primo di quelli che dovrebbero essere eventi di massa. Trovo tuutte le inopportunità elencate assai rilevanti e condivisibili. Mi dispiace che promotore di questa iniziativa sia un Presidente della Provincia che io personalmente e la lista UDC-Centro Popolare abbiamo sostenuto. Tale intervento non era nel programma e neppure è compatibile con i criteri generali di tipo politico e programmatico adottati. A quanto scritto da Manica e anche da Francesco Borzaga aggiungerei altre considerazioni, in parte già pubblicate da l’Adige. La prima e più importante è l’incoerenza di tale direzione di politica culturale con strategie di potenziamento dell’autonomia del popolo trentino. E’ un passo in avanti verso la massificazione eterodiretta, che toglie anima ai fondamenti culturali dell’autonomia, già erosi di per sè da fenomeni non controllabili e massificanti. C’è da chiedersi se non abbiano ragione coloro che rilevavano in ciò una carenza di cultura autonomista specifica della Lega, che ha avuto e ha fondamenti al riguardo diversi da quelli dello spirito autonomista autoctono trentino. Un sintomo non rilevante è lo stesso nome dato alla struttura, una denominazione inglese, come si conviene a chi si adegua ai processi di massificazione contemporanei. Il Presidente della Giunta Provinciale in un suo intervento istituzionale ha vantato la capacità della Giunta di dire sì, evitando gli immobilismi di chi pratica la cultura del no. Spero che si sia trattato di un discorso dettato da nervosismo. Non si può difendere una scelta politica solo per non dire sempre dei no. Le motivazioni politiche devono essere di altro spessore culturale, ma mancano. Conta solo attrarre gente, non importa come e perché. Coalizione popolare autonomista si è denominata la maggiorasnza di governo quando si è presentata agli elettori. Il popolarismo e l’autonomismo aborrono le massificazioni, tanto più se hanno il sapore di dipendenza da culture esterne. Avevo acquistato a suo tempo nelle vicinanze della futura Arena un terreno per costruire un’abitazione per la famiglia. Comune e Provincia hanno cambiato in fretta le norme urbanistiche che lo consentivano e rallentato i processi decisionali della domanda di concessione per impedire la realizzazione del progetto, motivando i dinieghi, anche successivi in occasioni di varianti, con la scelta di non favorire l’edificazione nello spazio fra la città e Mattarello. Constato che anche i più severi cirteri di pianificazione cedono il passo quando di mezzo non c’è una giovane famiglia con figli e e basso reddito, ma gli interessi politici di persone che contano.

Per due sindaci corso di formazione su economia montana e presenza lupi

lettera non pubblicata da l’Adige

Caro Direttore,
L’Adige del 1° febbraio pubblica due interviste ai due sindaci di Folgaria e di Brentonico, comuni nei quali i lupi hanno fatto “cronaca”. Se mi consente, vorrei mettere in evidenza l’insufficienza delle loro posizioni sul problema lupi, posizioni che posso così riassumere:
1. attenzione agli interessi degli allevatori con sostegni a sistemi protettivi e rapidità nel pagamento da parte della Provincia dei danni subiti:
2. abbattimento dei lupi problematici;
3. campagna di informazione che tranquillizzi la popolazione, non usando il lupo attaccare l’uomo.
Ciò che colpisce, soprattutto da parte di sindaci di comuni di montagna con ampie superfici a prato e pascolo, è la totale non considerazione dei danni del lupo non immediati, ma nel giro di pochi anni, e non ai soli allevatori, ma all’intera popolazione e all’economia di montagna. In un’intervista a una TV locale il neo Presidente dell’Associazione Allevatori del Trentino, Giacomo Broch, ha insistito con argomentazione appropriate sullo scoraggiamento che la presenza dei lupi esercita sulla pratica di pascolo e indirettamente di taglio dell’erba delle piccole superfici a prato un tempo definite “maggenghi”. I rimedi che i due sindaci hanno ripetuto da dichiarazioni di enti e associazioni animaliste sono solo palliativi assai poco efficaci. I lupi scavalcano reti elettrificate anche le più alte oggi in produzione; il terreno irregolare assai frequente in montagna rende poi più facile il superamento della rete. Nessun allevatore trentino continuerà ad allevare e curare animali per la previsione di rimborso, anche rapido, delle predazioni subite; se le cose non cambiano, pochi anni di pazienza nell’attesa che la situazione cambi e poi smetterà. Le campagne informative hanno scarsa efficacia nel produrre il convincimento dell’innocuità per l’uomo di branchi di lupi affamati, e sempre più affamati quanto più, senza nemici, si moltiplicano rapidamente. Se poi un lupo è problematico o meno lo si sa solo dopo che ha compiuto aggressioni. La storia di Cappuccetto Rosso nessuno se la sarebbe inventata se fosse certo e impensabile che dei lupi affamati (o semplicemente cacciatori per istinto e divertimento) non aggredirebbero mai un essere umano, specie se non in grado di difendersi, come un bambino o un anziano o un handicappato nei movimenti.
Folgaria e Brentonico sono comuni montani ad alto sviluppo turistico. Tutti gli esperti di turismo vedono nella cura dell’ambiente rurale montano un fattore attrattivo. L’inselvaticamento delle valli osservabile in molta parte delle Alpi occidentali, specie francesi, ha ridotto l’attrattività turistica alle grandi stazioni alberghiere d’alta quota per gli sport invernali. Forse la campagna informativa della Provincia andrebbe fatta per i sindaci dei comuni montani, incapaci di vedere le conseguenze future dell’aver tolto ai lupi l’unico “vertice” che ne controlla la diffusione e che per secoli e millenni era stato l’uomo.
Cordiali saluti,
Renzo Gubert (allevatore a tempo parziale di asini e capre, già segretario della Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati, già Presidente della Commissione Agricoltura, Ambiente ed Enti locali dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, già professore ordinario all’Università di Trento di Sociologia urbano-rurale e professore a contratto di Sociologia delle Comunità locali)

Comunità trentina per Università di Trento: disinteresse?

di il 21 Febbraio 2021 in comunità, università con Nessun commento

Le prossime elezioni del Rettore dell’Università di Trento hanno dato spunto per interessanti riflessioni pubblicate da l’Adige, ultima quella del prof. Giovanni Pascuzzi. Principale suo rilievo la scarsa attenzione della comunità trentina per ciò che accade all’università. Uno dei motivi, secondo lui, la “chiusura” della stessa Università a rendere pubblici, sul suo sito, gli atti interni, come verbali dei suoi organi, delibere, ecc.. Ho sempre apprezzato le analisi di Pascuzzi, ma in questo caso mi sembra non tenga conto del reale interesse della comunità per gli atti dell’Amministrazione universitaria. L’Università è rilevante per gran parte dei membri della comunità trentina per l’offerta didattica, perché essa incide sulle prospettive di istruzione dei giovani trentini. Per conoscerne i cambiamenti di rilievo di solito basta l’attenzione ai mezzi di comunicazione, stampa e radio-TV. Un segmento molto più limitato della comunità trentina è interessato alle attività di ricerca, pochi operatori economici, politici e culturali, mentre più occasionale è l’interesse per l’attività dell’Università per l’educazione permanente o più in generale per il dibattito culturale in occasione di convegni e conferenze, per la quale anche l’attenzione della comunità non può che essere occasionale e segmentata.

L’università è un’istituzione che vive nella comunità, ma solo per una piccola parte di questa è rilevante, quella parte che si assume il ruolo di guida della comunità, guida politica, culturale, economica, che come tale vede rilevanti soprattutto le relazioni tra comunità locale e l’ambiente esterno, regionale, nazionale, europeo, globale. Il Trentino è luogo parziale di reti di relazioni sovralocali e l’Università (come per lo più gli istituti di ricerca, anche se sostenuti solo dalla Provincia, come lo era anche l’Università), è uno degli attori di tale rete. E alla comunità trentina interessa se la propria università è uno dei foci di rilievo di tali reti di relazione. A tal proposito giocano un peso grande certamente i decisori politici provinciali e nazionali, i responsabili della direzione dell’ateneo e dei dipartimenti, docenti e ricercatori, per come agiscono soprattutto a scala sovra-provinciale. Mi preoccuperei molto di più dell’assenza di Trento tra i responsabili dell’istituzione da poco fatta per la ricerca nel campo dell’Intelligenza Artificiale anziché dei pochi interventi sulla stampa sulla gestione amministrativa assente dal sito dell’Università.

L’Università si muove su orbite diverse da quelle della quasi totalità dei membri della comunità trentina e a chi di questa ha responsabilità di guida deve interessare che il soggetto orbitante non giunga a fine corsa, ma anzi renda incisivo il suo operare. Ricordo che agli inizi del mio ruolo di professore era molto sentito il problema di garantire la residenza a Trento dei professori universitari. Allora il problema stava nel fatto che i docenti non residenti correvano il rischio di orbitare presso altre università, usando Trento, senza investirvi il loro genio, le loro iniziative. Le politiche per la residenzialità, l’aumento di disponibilità di risorse per la ricerca garantite dalla Provincia, la creazione di Istituti di ricerca, specie tramite l’ITC, la chiamata di professori di grande qualità hanno reso l’Università di Trento assai attrattiva, ai primi posti nelle classifiche nazionali e per alcuni settori anche internazionali. Quel problema della residenzialità è stato per gran parte superato, l’Università di Trento ha assunto una sua entitività autonoma di prestigio. Valutiamo, allora, con metro diverso il rapporto tra comunità trentina e Università, non dal numero di lettere o articoli sulla stampa per la prossima elezione del Rettore. Ma sono certo che anche Pascuzzi è d’accordo.

Concessioni idroelettriche in Trentino: gestione pubblica per più autonomia delle comunità

di il 28 Gennaio 2021 in autonomia, energia con Nessun commento
Caro Direttore,
l’Adige di sabato 23 gennaio ha pubblicato due interventi significativi sulla questione del rinnovo delle concessioni idroelettriche, una di Gianfranco Pederzolli, presidente del BIM del Sarca e un tempo storico esponente della DC della valle dei Laghi e una di Alessio Manica, consigliere provinciale del PD, entrambi favorevoli a una gestione pubblica dell’uso dell’acqua per la produzione di energia elettrica. Esprimo il mio forte apprezzamento per questa posizione. Finalmente si sta incrinando il sostegno alle privatizzazioni o comunque alla scelta di forme di gestione anche di SpA a presenza pubblica analoghe a quelle del privato, interessate ai dividendi della produzione e della distribuzione dell’energia idroelettrica, sostegno che è derivato da posizioni ideologiche neo-liberiste fatte proprie da almeno trent’anni anche dal maggiore partito della sinistra e dall’Unione Europea.

In Trentino e in Alto Adige la competenza in merito alle concessioni è, dopo lunghe battaglie politiche anche parlamentari, delle due Province Autonome. In uno studio su tutte le regioni alpine, da quelle francesi a quelle slovene e croate, promosso dal Comitato per la Cooperazione tra le Regioni dell’Arco Alpino, studio coordinato e finanziato dalla Regione Trentino – Alto Adige, i cui risultati sono stati presentati al Convegno di Lugano del 1988 e pubblicati nello stesso anno dalla Jaca Book, risultava evidente come la possibilità di decidere sull’uso dell’acqua a scopo energetico è un indicatore potente del grado di autonomia non solo politica, ma anche economica e sociale di una collettività. Dove tale autonomia è mancata per logiche nazionaliste o privatiste, è tutta l’autonomia a soffrirne gravemente. Da Presidente della competente Commissione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa a suo tempo avevo ottenuto l’approvazione dell’Assemblea di una Risoluzione che impegnava a ridare alle collettività locali i poteri per la gestione della risorsa acqua anche a scopo di produzione elettrica. Il Governo ha impugnato la legge provinciale che regola le concessioni, sulla base di posizioni anti-autonomiste che altro non riconoscono che il mercato globale e il criterio del profitto. E’ l’occasione, come scrivono i due interventi citati, per intraprendere con decisione la strada della gestione pubblica totale, ridivenuta ammessa dalle norme europee, come già per le concessioni autostradali. I possibili vantaggi derivanti da collaborazioni con società private del settore possono essere conseguiti con scelte di partnership industriale.

Credo sia utile sottolineare che tale scelta non deve portare a un’unica società pubblica provinciale, sottraendo la gestione della risorsa idrica a scopo di produzione di energia alle comunità locali sulle quali gravano i costi ambientali dell’uso idroelettrico. Ci sono state lunghe battaglie tra le comunità locali periferiche e quelle urbane centrali in Trentino per costruire, pur in un contesto difficile, un sistema societario che rispetti, almeno laddove ci sono già presenze autonome, le comunità di valle o di bacino imbrifero con i loro comuni. Si potrebbe innovare al riguardo, come già in passato mi sono permesso di proporre, costruendo un sistema di società idroelettriche pubbliche di valle o di bacino, che possono raggiungere i vantaggi di economie di dimensione a livello provinciale con una società consortile o con partenship di secondo livello. La crisi di progettazione del futuro dell’autonomia trentina che alcuni denunciano potrebbe trovare una parziale risposta in un sistema di autonomia diffusa che valorizzi le appartenenze di valle, ambito che struttura fisicamente percorsi d’acqua e loro portate.
Cordiali saluti,
Renzo Gubert

Inviato a L’Adige e finora non pubblicato

Memoria corta dei sostenitori del sistema elettorale maggioritario

Caro Direttore,
l’Adige di lunedì 25 gennaio pubblica un articolo di Andrea Radice decisamente critico verso il ripristino del sistema elettorale proporzionale annunciato da Giuseppe Conte nel discorso alle Camere per la fiducia. Interessante la frase “Certo, il sistema maggioritario non risolve le cose, ma almeno dà inizio a un’inversione di tendenza, con la quale si può cominciare a ragionare per operare scelte sempre più programmatiche…”. Non mi pare tanto, ed è un rigurgito di realismo. L’avv. Radice non può far finta di non sapere che l’esperienza del maggioritario, appena attenuato da una modesta quota proporzionale, è già stata messa in atto nel 1994, senza che, dopo più prove, vi sia stata una stabilità dei governi per tutta la legislatura. Nel 1994 vinse il centro-destra, ma dopo pochi mesi uno dei partiti, la Lega Nord, mise in crisi il Governo Berlusconi. Al turno successivo vinse il centro-sinistra, ma anche in questo caso il Governo Prodi venne mandato a casa da Rifondazione Comunista e sostituito dal Governo D’Alema, grazie a CCD e CDU che si spostarono, costruendo l’UDR, dal centrodestra al centrosinistra. Nel 2006 vinse il centro-destra con Berlusconi, ma fu mandato in crisi dalle irrequietezze interne alla coalizione e da un Presidente della Repubblica sensibile a voleri non italiani. Se gli orientamenti politici sono numerosi e non liquidi, le alleanze, sia che si facciano prima del voto, come nel maggioritario, sia che si facciano dopo, come nel proporzionale, corrono sempre il grande rischio di spaccarsi. E’ impossibile eliminare la diversità con un sistema elettorale, salvo che non si adotti un sistema plebiscitario verticistico nel quale un voto ogni un certo numero di anni dia tutto il potere a un individuo (Presidente). E’ una democrazia ridotta a poco. La ricchezza plurale degli orientamenti politici impone di far la fatica di raggiungere e mantenere intese programmatiche per il governo. Non si può non ricordare, tra l’altro, che la durata limitata dei governi nati con leggi proporzionali si è di fatto accompagnata a una grande stabilità politica di alleanze fra Democrazia Cristiana e partiti dell’area liberale e socialista democratica. Elemento per giudicare della stabilità non è solo la durata di un governo, ma anche quella di sistema tra un governo, i governi precedenti e i governi successivi. Per queste considerazioni la Democrazia Cristiana è a favore di un sistema proporzionale, accompagnato dalla regola della “sfiducia costruttiva”, che in Germania hanno garantito stabilità ed efficacia decisionale.
Cordiali saluti,
Renzo Gubert
Presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana

Inviato a L’Adige e finora non pubblicato

Cattolici e scelte politiche negli USA; osservazioni a Tonini e Dellai

di il 11 Gennaio 2021 in elezioni, partiti politici, religione con 2 Commenti
Su due giornali editi in Trentino, domenica 10 gennaio due articoli di due politici di sinistra che si considerano cattolici, Giorgio Tonini e Lorenzo Dellai. L’oggetto: la situazione politica statunitense, prendendo spunto dalle vicende legate all’esito delle elezioni presidenziali. Tonini è soddisfatto perché su tre vertici istituzionali negli USA ben due sono di religione cattolica e per la rilevante presenza di deputati e di senatori cattolici, accentuata nel partito democratico. Dellai giudica insufficiente la presa di distanza della destra in Italia dal metodo violento usato nel violare il Campidoglio da parte di dimostranti filo-trumpiani e se la prende con l’ex nunzio della santa Sede negli USA Viganò per una lettera che avrebbe scritto a favore del voto per Trump. Mi permetto alcune osservazioni.

A Tonini vorrei dire che l’essere di religione cattolica non garantisce la fedeltà ai principi del cattolicesimo. Lo hanno dimostrato proprio i due vertici “cattolici” Biden e Pelosi, che sui temi cruciali della tutela della vita umana dal concepimento alla morte naturale e della tutela della famiglia fondata sul matrimonio di uomo e donna, due dei principi “non negoziabili” per un cattolico, hanno assunto con evidenza posizioni opposte, proprio in netto contrasto con quanto sostenuto da ultimo anche da Papa Bergoglio, che continua a richiamare l’inumanità della “cultura dello scarto” che legittima ad es. l’uccisione nel grembo materno di chi non è desiderato per qualche ragione, fosse anche la sola sua salute. Ricordo, nella mia esperienza nell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa come su questi principi fondamentali si trovassero convergenze con cristiani protestanti, ortodossi, mussulmani assai più che con cattolici che tali erano solo per aver ricevuto da bambini il battesimo. Guardiamo alle scelte di valore più che ai registri demografici, che risentono di andamenti demografici che stanno modificando la composizione etnica degli Stati Uniti!

A Dellai vorrei dire che la pretesa che la condanna dell’uso della violenza nella vicenda dell’intrusione di manifestanti nel Campidoglio di Washington (non si può contrabbandare per tentativo di insurrezione o di colpo di stato, tant’è vero che i lavori del parlamento sono ripresi in giornata) non sia credibile se non si prendono le distanze dalle posizioni politiche sostenute da Trump, sa tanto di autoritarismo. Si possono condannare determinati comportamenti senza condannare in toto le convinzioni politiche professate da chi in modo improvvido ha incentivato le intrusioni. Su temi come la tutela della vita, ad es., Trump ha assunto posizioni consonanti con quelle sostenute dalla morale cristiana e mi pare che non si tratti di un tema secondario, univocamente trattato dal magistero della Chiesa. Non è un caso che i movimenti “pro-life” si siano pronunciati per il voto a Trump. La violazione dei valori e delle regole democratiche possono avvenire in molti modi. Il sistema elettorale nei diversi stati degli USA si presta a brogli, specie in relazione all’uso estensivo e decisivo del voto per corrispondenza, che non garantisce che il voto sia personale e segreto. Trump e il suo staff non hanno fornito prove, ma di tali violazioni era impossibile esibire prove. Ho assistito da osservatore del Consiglio d’Europa a molte votazioni in molti paesi ed ho visto molti brogli pur essendo la procedura di voto quella tradizionale ai seggi. In un’America dove i “poteri forti”, compresi i media, erano tutti pro democratici, è ancora più difficile che a sospetti di brogli venga data attenzione. Con il voto per corrispondenza la garanzia di voto personale e segreto può vanificarsi, senza che vi siano prove. Mi pare quindi possibile che almeno una parte della protesta abbia fondamento e in quel caso le valutazioni dovrebbero essere più prudenti.

La tradizione politica dei democratici cristiani è altra, rispetto a populismo e sovranismo espressi da Trump, ma di questa tradizione fa parte anche la prudenza nel giudicare, evitando strumentalizzazioni e falsificazioni.

Teologi e fede: serve una laurea statale in teologia?

sul Trentino del 7 gennaio è pubblicato un articolo di Maurizio Gentilini sul ritorno della teologia nell’università italiana grazie all’istituzione di un corso di laurea a Palermo in “Religioni e culture”, per il quale è stata stabilita una collaborazione con la Facoltà teologica di Sicilia. Il Gentilini coglie l’occasione per ripercorrere una vicenda trentina che mi pare aver avuto nei desideri di qualcuno, allora, una portata maggiore, non limitata a una collaborazione tra istituzioni statali ed ecclesiastiche, come è quella palermitana. Questa, tra l’altro, non conferisce una laurea in teologia, ma in “religioni e culture”, ossia in materia culturale nella quale rientrano anche le religioni. La cultura rientra in campi di studio nelle università statali già da tempo, oggetto di insegnamento, come nei corsi di “sociologia della religione” o “sociologia delle religioni” e di “sociologia dei fenomeni culturali” che a Trento hanno annoverato e annoverano studiosi di rilievo come lo scomparso Sabino Samele Acquaviva e, a Lettere, Salvatore Abbruzzese.

Ricordo che quando fu presentata a Trento l’eventualità di istituire una laurea in teologia presso l’Università di Trento in collaborazione con l’Istituto di Scienze Religiose, da professore dell’Università, anche con qualche responsabilità istituzionale, espressi un parere negativo. Alla radice stanno le medesime valutazioni che poi hanno portato la diocesi di Trento a costituire una sua propria scuola teologica, anche per la preparazione degli insegnanti di religione, togliendo tale compito all’Istituto di Scienze Religiose dell’Istituto Trentino di Cultura (ora Fondazione Kessler), ente laico provinciale. La questione cui rispondere è in fondo la seguente: la teologia cristiana è e
deve essere una disciplina “ancillare” alla fede o è una disciplina che può essere coltivata e insegnata indipendentemente dalla fede, anche da atei o da fedeli di altra religione? Forse per qualcuno la cosa più importante è l’autonomia epistemologica di una disciplina, che ha i suoi canoni che ben poco avrebbero a che fare con la fede. Non so se Gentilini sia su questa posizione. Per chi ha responsabilità di guida di una comunità cristiana (ma il ragionamento si applica anche ad altre religioni, come ad es. l’ebraica o la mussulmana) una teologia atea, agnostica, slegata da una fede, rischia di sviare la comunità dalla vera fede. Il problema diventa ancora più evidente se tra gli sbocchi professionali di un laureato in tale teologia vi fosse pure l’insegnamento di una religione, come quello di religione cattolica previsto in Italia dal Concordato. Vi è stato un acceso dibattito sul fatto che gli insegnanti di religione cattolica debbano ottenere il gradimento del vescovo della diocesi dove dovrebbero insegnare e ancora v’è chi avversa tale soluzione. Non basta certo l’aver ottenuto una laurea in teologia da un’università statale, sia pure con la collaborazione di una facoltà teologica ecclesiastica, per dare la garanzia che un docente di religione cattolica insegni religione cattolica e non altro, sia pure nei soli suoi aspetti di cultura, peraltro tutt’altro che secondari. Per questo mi pare semplicistico o eccessivamente accondiscendente alle tendenze secolarizzatrici, orientare positivamente l’opinione pubblica cristiana all’istituzione di una laurea statale in teologia, disciplina che dovrebbe sganciarsi dalla fede e dalla comunità religiosa che la professa.

Inviato a il Trentino e finora non pubblicato

Mercanti nel tempio? Dubbi in merito a un articolo sugli interessi per prestiti di Bruni su Avvenire

Avvenire di domenica 27 dicembre pubblica un lungo articolo di Luigino Bruni intitolato “Quando e perché i mercanti poterono occupare il tempio”. Il tema affrontato è di interesse non solo per gli storici, ma anche per l’etica economica e sociale contemporanea. Il titolo allude alla cacciata dei mercanti dal tempio da parte di Gesù, a Gerusalemme e propone la tesi di fondo, ossia il cedimento della Chiesa agli interessi dei mercanti e dei banchieri al tempo della Signoria Medici a Firenze e anche successivamente con riferimento al culto dei Re Magi. Mi ha colpito il contrasto tra le analisi del Bruni in quest’ultimo contributo e le lezioni che, studente di Sociologia a Trento nel 1965-66, frequentavo del prof. Gino Barbieri, eminente professore di Storia economica, (Legnago, VR, 1913-1989), formatosi alla Cattolica di Milano, allievo di Amintore Fanfani.

Il dibattito sull’ammissibilità della riscossione di interessi per i prestiti fu un tema assai dibattuto, confrontandosi le tesi intransigenti che richiamavano comandi della Bibbia del prestare senza esigere interessi e quanto si veniva imponendo nella nuova economia capitalista del prestito con interessi, stabilendo che di usura si poteva parlare solo se il tasso di interesse diventava assai elevato (fissato negli Statuti cittadini). Fu Martino Tomitano nato a Feltre, laureato con lode a Padova e divenuto poi frate minore assumendo il nome di Bernardino (da Feltre, riconosciuto beato dalla Chiesa) che approfondì in modo rilevante e con riflessi operativi l’etica sulla questione, distinguendo il prestito alla povera gente per poter vivere dal prestito come parte del capitale per poter produrre, commerciare e creare ricchezza. Come ricordato in altre parti dei contributi di Bruni pubblicati da Avvenire, il divieto di richiedere interessi valeva per Bernardino da Feltre per per il primo tipo di prestito, non per il secondo. E per i prestiti del primo tipo fondò i Monti di Pietà (il primo a Perugia, nel 1462), nei quali i prestiti ai poveri erano senza interessi.

Per Barbieri si trattò di un avanzamento di riflessione etica da parte del cristianesimo che lo fece uscire dalle secche di un integralismo letterale che applicava una norma motivata per certe situazioni a situazioni nuove, diverse, determinate dall’affermarsi del capitalismo. Non si tratta, quindi, di un cedimento etico, come lascia intendere Bruni in quest’ultimo contributo, ma di un progresso etico. L’usura è certamente rimasta un peccato, ma le condizioni affinché si possa parlare di usura sono state riviste. Semplificare il tutto parlando di mercanti che occupano il tempio, di cedimento della Chiesa che contraddice principi fondamentali, mi sembra tra l’altro non coerente con l’apprezzamento che, in precedenti contributi, Bruni esprime per il “realismo” dimostrato dai francescani, della loro capacità di “discernimento” (a differenza di altri) rispetto alle dinamiche economiche e sociali del loro tempo.

Omicidio di Agitu: colpa della concezione patriarcale della famiglia?

di il 6 Gennaio 2021 in famiglia, migrazioni con Nessun commento
Caro Direttore, nelle pagine della rubrica “Opinioni” del Trentino di fine anno è pubblicato un articolo di Paola Morini, esponente di un osservatorio sulle violenze contro le donne. L’articolo sostiene che l’omicidio della signora Agitu Ideo Gudeta da parte di un suo operaio agricolo del Ghana è dovuto alla cultura patriarcale, che legittimerebbe l’uso della violenza degli uomini sulle donne, percepite come “inferiori”. La tesi mi appare poco convincente. La violenza omicida nel caso della pastora di origine etiope nulla ha a che fare con la struttura familiare. L’omicida non ha motivato il suo atto per affermare la supremazia come maschio in un rapporto familiare, ma per una mensilità non corrisposta (a suo dire) dalla sua datrice di lavoro. Rapporti di lavoro, non rapporti familiari. In base alle mie esperienze d’Africa, talune anche drammatiche, è la facilità o meno al ricorso alla violenza a far la differenza, mancando in molte culture africane subsahariane la millenaria esperienza europea di civiltà cristiana, che insegna l’amore e il rispetto dell’altro, mancando in molte realtà africane uno spirito civico che riconosce solo allo stato, e dopo procedure prestabilite, il diritto a stabilire torti e ragioni e ad impiegare la forza per far rispettare le ragioni. E così il farsi giustizia da sé è costume che nel migliore dei casi è regolato dalla tradizione o dal consiglio degli anziani. Nella regione ugandese che ho conosciuto lo Stato era pressoché assente, mancavano apparati statali di controllo appena un po’ efficaci, comprese le prigioni dove custodire i colpevoli. Forse nel Ghana, luogo da dove proviene l’omicida, la situazione è migliore, ma non certo tale da assomigliare alla situazione delle società europee. Che la struttura patriarcale della famiglia possa non avere un ruolo nel generare omicidi della donna potrebbe essere provato esaminando dati statistici al riguardo. L’Osservatorio di cui è esponente Paola Marini potrebbe condurre qualche analisi. La cultura patriarcale stabilisce gerarchie di potere decisionale, tra l’altro diverse a seconda del campo delle decisioni da prendere; esiste un capo-famiglia. La riforma del diritto di famiglia, voluta in Italia da un parlamento per iniziativa sostenuta da forte presenza democratico-cristiana, ha sancito la parità tra i coniugi anche nello stabilire gli indirizzi della vita familiare, ed è stato un progresso, ma non so se abbia ridotto conflittualità e violenze tra uomo e donna. Le radici dell’uso della violenza sono ben più profonde e non mi pare attingano linfa e nutrimento dalle religioni, che per questo dovrebbero liberarsi dal “fardello della tradizione patriarcale” come invece afferma Morini. L’apostolo Paolo e più in generale la Bibbia condividevano l’idea che la famiglia avesse un capo-famiglia, ma non mi pare che a ciò si possano attribuire colpe per l’uso della violenza, specie fra estranei come nel caso della pastore etiope e dell’operaio agricolo ghanese. Rendere omaggio a luoghi comuni, come frequente in certi ambienti intellettuali e politici, non mi pare renda un buon servizio allo sradicamento dell’uso della violenza.

Inviato al Trentino ma non pubblicato

Chiesa-comunità è Chiesa strutturata

di il 5 Dicembre 2020 in burocrazia, comunità, religione con Nessun commento

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sul Trentino del 14 novembre Danilo Fenner, commentatore di questioni religiose del giornale, critica l’eccessiva burocratizzazione della Chiesa cattolica e vede in ciò una delle ragioni di conflitto tra la realtà e quanto invece vorrebbe Papa Bergoglio, una Chiesa-comunità. più “sinodale”. E fa un lungo elenco “una pletora” scrive, di organismi interni della stessa Chiesa locale, della diocesi, che, tra l’altro vedono un ruolo marginale delle donne e l’onnipresenza del clero. Rilevo che dall’elenco manca stranamente un altro organismo diocesano, la “Consulta dei laici”, che raccoglie esponenti di associazioni e movimenti cattolici, dove Presidente eletta è da più mandati una donna e dove le donne sono numerose.

Leggendo l’articolo sono riandato col pensiero alla mia gioventù, nel periodo del Concilio Vaticano II e degli anni immediatamente successivi, quando la costituzione di organismi di partecipazione era visto, alla luce dei documenti conciliari, come un fatto positivo, innovativo, rispetto alla situazione precedente nella quale la gestione delle decisioni attinenti alla Chiesa, anche locale, erano di competenza esclusiva delle autorità ecclesiastiche (parroco, vescovo). Come mai tali organi di partecipazione sono giudicati da Danilo Fenner come “burocrazia”, che contrasterebbe la “sinodalità” che vorrebbe, invece, Papa Francesco? Pure il Sinodo, peraltro, è un organismo di partecipazione, in versione certo più “assembleare”, ma disciplinato da regole e da rappresentanze anche a livello diocesano, come l’ultimo tenuto nella diocesi trentina per volere del vescovo mons. Gottardi. C’è un altro aspetto della gestione ecclesiale che viene spesso criticata, il procedere per pianificazioni. Ricordo quando si criticava la gestione “episodica” di iniziative e, sulla scorta di quanto accadeva anche in campo civile, con l’affermarsi della pianificazione o programmazione (economica, sociale, urbanistica, ecc.) anche nella gestione ecclesiale e associativa si procedeva per piani (e ancora si procede) e la loro formulazione e valutazione era compito degli organi di partecipazione, ciascuno con le sue specifiche competenze. Anche a questo riguardo c’è chi rinviene in tale pianificazione non il tentativo di dare razionalità all’azione, ma un sovrabbondare di burocrazia. Meglio l’improvvisazione che nasce dall’ispirazione dello “Spirito Santo”, che soffia dove vuole e non si lascia disciplinare dalla razionalità umana.

Danilo Fenner (ma non è solo, con lui egli vede anche il Papa attuale) vorrebbe altri modelli di gestione, ispirati a una Chiesa-comunità, “non burocratica, non dottrinaria, non strutturata…. dove a decidere non sono i preti”. Risento l’eco di uno spirito “sessantottino”, che aveva destrutturato la formazione universitaria e voleva destrutturare i partiti e i sindacati, sostituendoli con “movimenti” e comitati condotti da leader, voleva destrutturare la famiglia (ricordo le “comuni” anche a Trento), e così via. Non mi pare che l’esperienza abbia dimostrato che simili modelli gestionali abbiano portato grandi risultati. E in ogni caso un periodo “movimentista” termina con l’estinzione dell’effervescenza e/o con la strutturazione, che vede regole, apparati amministrativi, “dottrine” di riferimento. Anche la “comunità” vive strutturata, come dimostra la storia delle comunità locali. La “rivoluzione permanente” non è mai durata a lungo, né nella Cina maoista nè nella Cuba castrista. Il problema da cui originano i sentimenti espressi da Danilo Fenner non sta né negli organismi di partecipazione né nella programmazione delle attività, ma nella debolezza della fede, dell’esperienza ecclesiale, nella secolarizzazione del nostro modo di vivere, che lascia uno spazio sempre più esiguo alla forza e alla portata della risposta religiosa alle questioni di senso della vita nostra e del mondo. Sempre meno persone che scelgono il sacerdozio o la vita consacrata. Sempre meno forte è il senso di appartenenza ecclesiale. Cresce la religione “self service”, “à la carte”. Desiderare una Chiesa destrutturata, perfino anche nella dottrina, è espressione di ciò.

Inviato a il Trentino e finorta non pubblicato

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