Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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disciplinare la sessualità è un artefatto della borghesia?

di il 20 Maggio 2023 in famiglia con Nessun commento

Egregio sig. Direttore,

se l’editoriale comunica l’orientamento di chi dirige un giornale, mi permetto, da abbonato, di capire le ragioni per le quali per chi dirige il giornale sia liberazione il venir meno della disciplina dell’esercizio della sessualità, come recita il titolo di un articolo di una professoressa di Scienza della Politica all’Università di Trento Alessia Donà, che non ebbi l’occasione di conoscere quando alla medesima università insegnavo. La tesi sostenuta dall’editoriale è che il considerare normale che una persona di un sesso abbia relazione stabile con persona dell’altro sesso, formando una famiglia, nel cui grembo nascono e crescono i figli è stato un artefatto delle classi borghesi che hanno voluto costruire lo stato-nazionale, combattendo contro la dissolutezza delll’aristocrazia. L’etica borghese si sarebbe poi estesa a tutta la società. Per la scienziata politica, grazie ai movimenti di omosessuali e transsessuali la società contemporanea occidentale ha dapprima smesso di considerare l’omosessualità una malattia e poi sostiene politiche culturali che la celebrino con orgoglio. L’editorialista infine raccomanda ai lettori trentini di partecipare alla prossima manifestazione dell’orgoglio gay a Trento.

Prima questione riguarda se sia proprio così negativo il disciplinamento, almeno a livello etico e culturale, dell’esercizio della sessualità. Se esso è solo un artefatto, magari al servizio di un progetto di potere, come afferma l’editorialista, esiste la necessità che si pongano dei limiti alle modalità della sua espressione? Seconda questione: se la natura ha reso i mammiferi esseri viventi distinti tra maschi e femmine, ciascuno provvisto di organi per la copulazione e la riproduzione, non è che per caso sia un artefatto sociale la legittimazione di uso dei genitali in modo difforme da quello naturale proprio dei mammiferi? Terza questione: in tutte le società che nei decenni di ricerche sociologiche in tutti i continenti ho avuto modo di conoscere, la normalità deil’espressione della sessualità è quella del rapporto sessuale tra uomo e donna, talvolta sotto forma anche di famiglie con più donne per un uomo e, più raramente, di più uomini per una donna. Solo in alcuni piccoli segmenti secolarizzati della società post-industriale occidentale ha una qualche diffusione il rapporto di coppia omosessuale. Non è per caso che sia questo un artefatto socio-culturale, deviante dalla norma di “natura”? Ultima nota: le dure condanne che nella Bibbia sono contenute nei confronti della pratica dell’omosessualità non pongono nessun interrogativo a chi finora non ha preso le distanze dal messaggio cristiano? Prima di dire che la condanna della disciplina della sessualità è un artefatto borghese a fini politici consiglierei alla editorialista del giornale di leggere non solo qualche pamphlet della lobby LGBT, ma anche la Bibbia, per capire che il disciplinamento dell’esercizio della sessualità ha radici ben più profonde e antiche di quelle delle esigenze di controllo sociale da parte della borghesia di Ottocento e Novecento.

INVIATO A T QUOTIDIANO E FINORA NON PUBBLICATO

Bruni su Avvenire: la Riforma di Lutero meglio della Riforma cattolica

di il 29 Aprile 2023 in religione con 2 Commenti

Egregio Direttore,

nella terza pagina di Avvenire del 23 aprile un lungo articolo di Luigino Bruni mi ha lasciato sconcertato: la Controriforma cattolica per Bruni aveva ed ha torto mentre la Riforma protestante e Lutero aveva ed ha ragione. Sacrificio e merito sono categorie appropriate a “idoli” e la Chiesa cattolica che le ha proposte ha sbagliato in modo evidente. La stessa domenica del 23 aprile il Vangelo della Messa raccontava come Gesù di Nazareth spiegava ai discepoli di Emmaus, sconcertati per la brutta fine da lui fatta, come fosse necessario che egli venisse sacrificato, in adempimento alla Scrittura. Evidentemente l’evangelista Luca, stando a Bruni, ha falsificato le parole di Gesù. Per Bruni sbagliato pensare alla Messa come sacrificio, come sbagliato il culto dei santi e sbagliato valorizzare il sacrificio. Ingannate le mamme che si sono sacrificate per la famiglia: penso a mia madre che ha avuto undici figli e a mia moglie che ne ha avuti nove e a mia suocera che ne ha avuto sette. Ingannati i bambini che erano invitati da sacerdoti, suore e catechiste a disciplinare i loro desideri anche rinunciandovi. Guai pensare a meriti e demeriti. Il sig. Bruni è ovviamente libero di pensarla come crede, di essere estimatore più di Lutero, in materia, che del magistero conciliare cattolico. Ciò che mi chiedo è che abbia a che fare Avvenire con queste valutazioni. Già c’è disagio per alcune posizioni assunte dal giornale, che pur rientrano nella libertà di opinione anche in un quotidiano definito “dei vescovi italiani”. Se adesso si mette a fare da megafono alle tesi di Lutero e alle sue condanne della Chiesa cattolica mi chiedo cosa abbiano a che fare con Avvenire i laici cattolici italiani.

INVIATO AL DIRETTORE DI AVVENIRE E NON PUBBLICATO

l’Adige contro le donne che fanno figli

di il 20 Aprile 2023 in famiglia con 1 Commento



Egregio Direttore,

l’Adige di sabato 8 aprile pubblica con rilievo un articolo di Maria Teresa Fossati sulla denatalità, avvertendo che insistervi costituisce indirettamente un rimprovero alle donne che, per natura o per scelta, non fanno figli. Si tratta di un’osservazione da non trascurare, ma accompagnata da altre che mi appaiono fuori luogo. La più rilevante è che le donne che hanno avuto molti figli “non riuscivano a dare amore” …”incapaci di regalare al figlio un sorriso, di scambiare con lui indispensabili sguardi di affetto e di gioia”. Probabilmente l’autrice ha sofferto di una madre “snaturata” o è vittima di pregiudizio. Sono il primogenito di undici figli e direi il falso se la figura di mia madre fosse quella descritta dalla Fossati. Ci sono donne capaci di amare gli altri e donne che non lo sono e forse sono proprio quelle che per scelta non vogliono l’incomodo di un figlio o di un secondo o terzo figlio che hanno più difficoltà a donarsi all’altro. Mia moglie ha avuto nove figli, ma non percepisco da parte di alcuno dei miei nove figli carenze di affetto da parte della madre. Per le madri di un tempo “era irrilevante – scrive la Fossati – che fossero desiderati o no”. Certo che era irrilevante, per fortuna. Come si può pensare di amare meno un figlio perché è stato concepito senza “desiderio di averlo”. Quando uomo o donna in chiesa contraevano matrimonio veniva loro chiesto dal sacerdote se erano disposti ad “accogliere i figli che Dio vorrà loro concedere” e la risposta era un sì. L’apertura alla vita non era paragonata all’aquisto di un bene desiderato, ma era una disponibilità ad accogliere il frutto del rapporto d’amore. La sterilità vede insoddisfatta tale disponibilità, ma la fecondità richiede di essere accompagnata da responsabilità, in considerazione delle condizioni di salute, fisica e psichica, ed economiche dei genitori. La saggezza di Papa Montini è stata illuminata al riguardo con una sua lettera enciclica. E se le condizioni economiche e psicologiche lo richiedono, per non far gravare troppo il costo di curare ed educare i figli sui genitori, è giusto che i pubblici poteri, anche sostenendo iniziative di privato sociale, diano un aiuto. Lo prevede anche la nostra Costituzione, citando la particolare attenzione dovuta alla famiglie numerose. In Trentino era stata fondata negli anni Cinquanta l’Associazione delle famiglie numerose, divenuta poi Associazione Trentina delle Famiglie. Negli anni Ottanta si è aggiiunto il Sindacato delle Famiglie a livello nazionale. Non si adonti nessuno, se sterile, se c’è chi si preoccupa di sostenere la famiglia. Da ultimo la nota critica della Fossati sui “bimbi affidati a sorelle maggiori costrette a rinunciare a scuola e giochi per badare, in qualche modo, ai più piccoli”. E’ proprio sicura che le sorelle maggiori non siano cresciute più ricche di umanità nell’assumersi un ruolo di cura del fratellino o della sorellina per aiutare mamma e papà, anziché passare il tempo con videogiochi o altri passatempi? Ma vale anche per i fratelli maggiori. Il Centro Studi Rezzara di Vicenza molti anni fa mi chiese di scrivere un articolo sui vantaggi della famiglia numerosa. Non ci sono solo costi, ma anche vantaggi educativi, all’altruismo, alla responsabilità, al rispetto del fratello o della sorella di sesso diveso dal proprio, all’impegno alla collaborazione, alla disponibilità al sacrificio, a superare egocentrismi. Chieda la signora Fossati alcune valutazioni di figli unici sulla loro esperienza. E chieda dell’oppressione che a volte su uno o due figli grava per soddisfare le attese eccessive dei genitori nei loro confronti o al contrario di eccessiva accondiscendenza dei genitori per timore di contrariare il figlio nei suoi capricci, da quelli alimentari ad altri.

La denatalità è un impoverimento, è l’indicatore più facile e sicuro del declino delle civiltà. E per ora si cerca su supplire alle sue conseguenze negative importando figli nati da paesi a più alta natalità. Ma non basterà, come non bastò il rinsaguamento della popolazione dell’Impero romano conseguito con l’immigrazione di popoli di etnia germanica o slava. Invertire la rotta si può.

Renzo Gubert

NB l’Adige ha rifiutato la pubblicazione, nonostante l’articolista abbia offeso tutti coloro che, come me e mia moglie, vengono da una famiglia numerosa e hanno una famiglia con più figli. Ha pubblicato la lettera l’Agenzia giornalistica opinione cui dopo giorni l’ho inviata

Scuola dell’infanzia e compiti di cura: inversioni

di il 11 Febbraio 2023 in famiglia, scuola, servizi pubblici con Nessun commento

l’Adige ha ospitato prese di posizione in merito al prolungamento oltre l’emergenza covid dell’apertura delle scuole d’infanzia per il mese di luglio, impegnando ovviamente il personale. Da ultimo due interventi più approfonditi, che non si riducono a questione contrattuale, di un ampio gruppo di maestre e il 7 febbraio della consigliera provinciale Lucia Maestri. Da bambino ho frequentato tre anni di scuola materna (come allora si chiamava), da genitore ho mandato i miei nove figli alla scuola d’infanzia e sono stato Presidente del Comitato di Gestione in una scuola per più mandati, sono stato consulente per molti anni della Federazione Provinciale delle Scuole Materne, pubblicando al riguardo molti articoli e dei volumi in collaborazione in merito al rapporto tra genitori e comunità e all’autonomia scolastica, accompagnando con altri colleghi docenti universitari, pedagogisti e sociologi e con esperti dipendenti della citata Federazione, il progetto di “scuola di comunità” guidato dal prof. Gino dalle Fratte, che ha avuto dopo anni di impegno nazionale, anche il riconoscimento legislativo con le norme sull’autonomia scolastica. Quanto esposto dalle maestre è del tutto congruente con tutto il lavoro che a Trento, e non solo, è stato svolto dalla Federazione, che gestisce la maggior parte delle scuole d’infanzia della provincia di Trento, testimonianza ancora vitale, tra le poche rimaste, della capacità di autonomia della società trentina. Non Le scrivo, peraltro, per evidenziare esperienze, ma per mettere in luce inversioni di posizione riscontrabili nel dibattito in corso. Come Presidente del Comitato di Gestione e come esponente dell’Associazione Trentina della Famiglia e del Sindacato delle Famiglie, nonché della DC e del Movimento Popolare ho sempre sostenuto, assieme a molti altri, ad altre associazioni cattoliche, che la scuola dell’infanzia non poteva essere ridotta a servizio di custodia dei figli piccoli (come fosse un asilo nido). Il puntare ad es. sul tempo pieno, sul prolungamento d’orario, su un ampliamento del tempo e del calendario di didattica per il personale insegnante, ci sembrava ridurre il tempo educativo in famiglia e nelle iniziative formative che la comunità era in grado di offrire. La scuola dell’infanzia non poteva ridursi a “parcheggio” dei figli. La famiglia non esaurisce il suo ruolo nel mettere al mondo i figli, consegnandoli poi alla collettività, all’ente pubblico. Le misure da prendere per venire incontro a bisogni di cura dei figli dovevano essere altre, e allora si è lottato, con assessori come Pino Morandini o Paola Vicini Conci, responsabile scuola della DC, per il riconoscimento economico (assegno, trattamento fiscale) e previdenziale del lavoro di cura di chi, per farlo, rinunciava a un lavoro fuori casa, per la concessione per chi lavorava fuori casa del “congedo lungo” per maternità e prima infanzia o la possibilità di orario part-time. Da allora anche la politica nazionale ha fatto qualche timido passo in avanti e per queste misure mi sono battuto da parlamentare. Ebbene, allora la sinistra, da quella politica a quella sindacale, si poneva sul fronte opposto e, nel caso specifico, per il tempo pieno gratuito per tutti, per allargare il calendario delle attività didattiche delle maestre, avendo come obiettivo lo sgravio dei genitori e della comunità da impegni educativi, sacrificando la pluralità di modi e di ambienti di socializzazione dei bambini. La scuola materna tendeva ad essere concepita come “istituzione totale”. Oggi siamo all’inversione: una maggioranza di centro-destra spinge per ciò che un tempo voleva la sinistra e la sinistra (vedi la segretaria politica pro-tempore del PD Lucia Maestri) è orientata come un tempo lo era quello che era il centro cattolico. Non è la prima volta che la maggioranza autodefinitasi “popolare autonomista” pratica tali inversioni. Ricordo solo le politiche culturali a favore dei concerti di massa, un tempo tipiche della sinistra (vedi l’Estate Romana). Come mai? Non è per caso che le scelte politiche non siano più confrontate con orientamenti di valore “popolari autonomisti”? Ripetere errori che almeno una parte della sinistra ora evita mi pare sbagliato. L’assessore ha un patrimonio di elaborazioni pedagogiche e sul rapporto scuola-comunità uniche a livello nazionale, produttrice la Federazione Provinciale Scuole Materne. Perché ignorarle?

Lettera indirizzata a l’Adige, non pubblicata

Propaganda gender con un seminario all’Università di Trento


Lettera al quotidiano il T , non pubblicata

Egregio Direttore,

il T del 24 novembre dedica l’intera pagina “Cultura” al convegno Gender R-Evolutions che il Centro studi interdisciplinari di genere dell’Università di Trento organizza per il 25 e il 26 novembre. Al di là della notizia, un grande rilievo è dato a un’intervista a una relatrice, Sara Garbagnoli, che propone come obiettivo da perseguire la “denaturalizzazione di sesso e razza”. Che il concetto di razza sia una semplificazione lo si scrive da tempo (anche se caratteri come colore della pelle, forma di capelli e peluria, statura media, odore del sudore e altro ancora siano caratteri naturali distribuiti per via ereditaria tra le popolazioni umane, tutt’altro che non naturali). Per questo l’intervista è centrata sulla denaturalizzazione del sesso. Il giornalista Mattia Pelli non evita le obiezioni alla tesi dell’intervistata, che “è il genere a creare il sesso biologico”. Il sesso di una persona per la relatrice, anche nella sua dimensione biologica, è una costruzione sociale. E chi continua a pensare che uomo e donna siano diversi per natura è ritenuto mettere a pericolo la democrazia, da contrastare con un “neo-antifascismo”. Credo che non ci sia modo più efficace di mettere in difficoltà l’Università, il cui Rettore, all’inaugurazione dell’anno accademico, ha chiesto più sostegno economico da parte della Provincia Autonoma di Trento, che il dover constatare come questa, attraverso un suo Centro Studi, finanzi convegni nei quali vengono sostenute tesi non solo insostenibili con il metodo del’osservazione della realtà, ma orientate a fare propaganda per movimenti politici che non si possono più nemmeno definire di femminismo estremo. La ricerca è libera, può essere indirizzata con l’uso opportuno del finanziamento pubblico e privato, ma non è libertà di ricerca usare università e centri di ricerca finanziati con denaro pubblico per obiettivi politici, anche distorcendo, come nel caso in esame, il semplice buon senso. Dedicare la pagina Cultura a posizioni del genere ha il merito di rendere evidente il degrado di porzioni delle strutture universitarie, ma mi viene il dubbio che il farlo possa invece favorirne la diffusione. Sono impertinente se le chiedo quale tra questi due obiettivi è quello perseguito dal quotidiano che dirige?


La DC alle prossime elezioni provinciali-regionali in Trentino nel 2023

di il 17 Novembre 2022 in elezioni con Nessun commento

In questi giorni i quotidiani locali mostrano interesse per la fase di mobilitazione politica in vista delle elezioni provinciali-regionali del prossimo autunno. Come spesso accade, la competizione in un sistema maggioritario è per il voto degli elettori di centro (o con definizione impropria “moderati”). Noto che nè l’iniziativa dell’assessore Achille Spinelli per un centro che allarghi i consensi al candidato presidente di centro-destra, nè quella che è auspicata da esponenti di Azione-Italia Viva e da ex UpT che allarghi i consensi al centro-sinistra, nè quella di centro-centro proposta da PATT e Progetto Trentino mostrano interesse alcuno per coinvolgere coloro che si richiamano alla tradizione della Democrazia Cristiana (nelle elezioni del 2018 avevano presentato una lista che comprendeva UDC e Centro Popolare, e che per pochissimi voti ha mancato di eleggere un consigliere). Nei quattro anni trascorsi il Centro Popolare, esponenti dell’UDC e politici di rilievo già DC come Pierluigi Angeli si sono attivati in Trentino per far partecipare chi apprezza l’esistenza di un partito di ispirazione cristiana alla riattivazione anche in Trentino della Democrazia Cristiana, avvenuta a livello nazionale per opera dell’assemblea dei soci del suo ultimo tesseramento (1992-1993). Come Flaminio Piccoli aveva sostenuto (dopo un primo suo voto favorevole in Consiglio Nazionale, poi giudicato un suo errore), e come nel 2010 la Corte di Cassazione, in modo definitivo ha riconosciuto, la Democrazia Cristiana non era mai stata sciolta e così essa ha ripreso l’attività. Non sono mancati e non mancano ostacoli posti da coloro che dallo pseudoscioglimento della DC avevano tratto e traggono vantaggi, politici e patrimoniali, per cui in questi anni vi sono stati contenziosi giudiziari sulla legittimità della riattivazione della DC, ma nel 2022 il Tribunale di Roma, in due sentenze, ha finalmente statuito la legittimità sia dell’Assemblea dei soci del 2016, sia del XIX Congresso di Roma del 2018 che ha eletto i nuovi organi del partito, organi che nella prossima primavera verranno rinnovati con i nuovi iscritti nel suo XX Congresso. Passare dal piano giuridico a quello del consenso politico richiede risorse umane ed economiche e molta convinzione, che certo non può più avvalersi dalla rendita politica della quale ha goduto per quasi cinquant’anni la Democrazia Cristiana fondata da Alcide Degasperi, da Luigi Sturzo e da molti altri, ma si affida solo alla forza dei valori professati e delle soluzioni proposte, ispirati al pensiero sociale cristiano. La riattivazione della DC ha comunque avuto inizio anche in Trentino, come nella maggior parte delle regioni italiane. In Sicilia, nelle recenti elezioni regionali, la DC ha superato con oltre il 6% dei voti, la soglia per avere consiglieri eletti. Per le elezioni nazionali, fallito il tentativo di far parte del Terzo Polo per la poca simpatia di Calenda per la Democrazia Cristiana, il partito ha lasciato alle singole realtà regionali di scegliere le liste da sostenere e nel Trentino la DC si è espressa per un voto di centro, sia questo il Terzo Polo o Noi Moderati o gli autonomisti di PATT e PT. Nella sua ultima riunione della Direzione si è deciso di impegnarsi per una propria presenza alle provinciali-regionali, possibilmente, come avvenuto anche in Sicilia, in accordo con UDC e altri gruppi politici di esplicita ispirazione cristiana. La sfida non è da poco, ma stentiamo a credere che in una terra come il Trentino, che ha avuto uomini e donne di grande levatura politica ispirati all’umanesimo cristiano, siano spente le motivazioni ideali che hanno animato molti uomini e donne. La prova ci attende il prossimo anno. Chi vuole dare una mano iscrivendosi alla DC e partecipando, se vuole, si faccia vivo,

Proteste per il cambio di gestione del Festival dell’Economia: solo amore della qualità??

L’Adige segue da giorni con ampi spazi la vicenda del cambiamento degli organizzatori del Festival dell’Economia che la Provincia Autonoma di Trento ha voluto. Non solo  l’Editore Laterza e il prof. Tito Boeri, i più diretti organizzatori del Festival fin qui tenuto, ma anche l’Università di Trento con il Rettore e le firme su un documento di protesta di molti suoi docenti e il Sindaco di Trento, parti del Comitato organizzatore, si sono aspramente espressi contro la decisione provinciale, annunciando i primi volontà di ritorsione organizzando il festival in altre città, facendo quindi concorrenza a Trento e negando correttezza all’uso del simbolo dello “scoiattolo”.  E’ seguita la notizia che due ex cattedratici di Trento,   già marito e moglie, e titolari di altri importanti incarichi, nonché l’attuale Presidente della Fondazione Kessler sosterrebbero  l’iniziativa di tenere il festival a Torino.

Non sono tra coloro che furono lieti della decisione presa molti anni fa dalla Provincia di Trento di finanziare lautamente il Festival, non tanto perché i vertici organizzativi facevano parte dell’apparato culturale della sinistra, ma perché abbondante denaro pubblico della Provincia veniva speso in un’iniziativa poco produttiva per la scienza  ma molto solo di immagine per il Presidente della Provincia Autonoma e per gli organizzatori,  con riconoscenza acquisita da parte di operatori turistici e di proprietari di mezzi di comunicazione di massa, beneficiari di risorse per  la divulgazione dei programmi. Spese di questo tipo sono per l’immagine, ma l’autentica cultura trentina non ama le spese per l’immagine, tipiche un tempo dell’”estate romana”; vuole spese per le cose “solide”, che possono  e debbono essere anche per scienza e cultura, ma produttive di progressi.

Ciò che mi induce a scriverle, Direttore, è il desiderio di smascheramento delle ipocrisie che ispirano le proteste. La Provincia di Trento è accusata di aver cambiato i responsabili del Festival perché governata da una coalizione di centro-destra a guida leghista. Lo ritengo probabile, ma mi chiedo se le forti proteste a sostegno dei precedenti organizzatori non siano a loro volta motivate dal fatto che essi rientravano nell’arcipelago della cultura di sinistra, non certo quella di ispirazione marxista, ma quella laico radical chic, che peraltro ha largamente sostituito la prima tra gli apparati culturali della sinistra. Sembra assai prematuro prefigurare  mancanza di attenzione al pluralismo nella nuova gestione. Certamente a cambiare saranno i beneficiari delle “rendite” politiche e di clientela, che potranno non essere più della galassia precedente, che quindi protesta prefigurando quanto meno lesa maestà  (come non sapessero  Comune di Trento e Università di Trento che il potere di decisione è soprattutto nelle mani di chi ci mette i denari)  nonché mancanza di qualità scientifica, degradata a divulgazione priva di spessore.

Sarà il futuro a dire se il nostro (trentino) denaro pubblico servirà per lo più (a parte i risvolti per gli operatori turistici) solo a un’operazione di immagine; di certo la gestione Laterza-Boeri lo faceva a sostegno di indirizzi che si possono definire “conformisti” , in consonanza nel loro insieme  con scelte “governative”  di centro-sinistra.  Da qualche nome filtrato sulla stampa di sostenitori del nuovo corso ci si potrebbe attendere qualche “anticonformismo” in più, qualche capacità in più di violare i tabù del “politicamente corretto”. Le riflessioni di Giulio Tremonti in più occasioni, l’ultima a Pieve Tesino nella “lectio degasperiana” di quest’anno, non sono certo segnale di conformismo.  L’editore del  giornale di Confindustria, Il Sole, capofila, potrebbe farne dubitare, ma si vedrà.

Pubblicato da l’Adige settembre 2021

Convivenza uomo e grandi carnivori: una strada impercorribile

Nel numero del 1° agosto di Vita Trentina vi sono due pagine dedicate a lupi e orsi. L’atteggiamento complessivo degli articoli e delle interviste è quello di favorire la buona convivenza tra uomo e grande carnivoro, un atteggiamento “politicamente corretto”  bene espresso da un’operatrice della comunicazione che lavora presso il MUSE. Il fondamento di tale atteggiamento sta nell’assunzione che vi è una pluralità di interessi in campo, che vanno contemperati: “allevatori, agricoltori, cacciatori, pastori, escursionisti”. Per realizzare tale contemperamento un articolo ricorda misure di prevenzione  di  predazioni, come “reti, recinti, cani da guardiania” fino ai box abitativi in quota, portati in elicottero, recente iniziativa della Provincia, per ospitare i guardiani degli animali domestici al pascolo.

Due osservazioni sul taglio dato da VT alle due pagine. La prima riguarda l’eclissi di ogni considerazione di “bene comune”, ridotto alla visione liberale di “contemperamento di interessi” privati. Non ogni interesse merita la medesima tutela. Se in gioco vi sono “beni comuni”, gli interessi che concorrono a realizzarli dovrebbero essere prioritari. Nel caso dei grandi predatori si sta già verificando la rinuncia di allevatori, specie di aree agricole marginali, a monticare i loro animali domestici per l’accresciuto rischio di farli diventare prede di lupi e orsi. La propaganda del “politicamente corretto” afferma che la Provincia interviene economicamente per finanziare l’acquisto di reti e per pagare i danni.  Sufficiente per evitare il ritiro dall’uso del territorio? Non pare. Di reti si finanzia solo quella (una o due) per la custodia notturna, non quelle necessarie per recintare una porzione di terreno a pascolo e gli indennizzi per le predazioni non pagano il danno morale di vedere animali curati tutto l’anno dilaniati dai predatori.  L’uso del territorio previene il suo abbandono e ciò realizza bene comune. Fuorviante equiparare l’interesse degli allevatori a quello degli escursionisti e degli animalisti, che hanno solo interesse a sapere che ci sono ancora lupi e orsi che girano per boschi e pascoli, uccidendo altri animali.

La seconda osservazione riguarda l’assoluta mancanza di attenzione alle attività agricole su territori marginali. L’antropizzazione dei territori nelle aree alpine è stata ampia. Il territorio trentino, come in generale quello della Alpi centrali, è costellato di piccole aree prative, con connesse strutture edilizie rurali, un tempo usate per la fienagione e per il pascolo nelle stagioni intermedie tra estate e inverno. Si tratta di un enorme patrimonio paesaggistico che altrove non c’è mai stato o  è andato perduto (Alpi orientali e Alpi occidentali). L’agricoltura meccanizzata cura le grandi superfici, la pastorizia i grandi pascoli. Senza agricoltori e allevatori marginali part-time, che non possono sostenere spese aggiuntive per cani da guardiania o per pagare qualche pastore di paesi poveri,  le piccole superfici, i piccoli masi, sarebbero abbandonati. Si può dire che conservarne l’uso, e non solo quello semi-turistico in poche aree, è “bene comune”? Penso di sì. L’operatrice di LifeWolfsAlp EU non ne fa cenno. Si pensa a far apparire “buono” e semplicemente selvatico il lupo, per ridurne la paura,  a tutela forse di qualche raccoglitore di funghi o di qualche turista spaventato  memore della favola di “cappuccetto rosso”, ma sulle conseguenze paesaggistiche e più largamente ecologiche dell’abbandono delle aree a prato marginali non una parola.

Concerti in grandi “arene”: strada di rafforzamento della massificazione veleno dell’autonomia

L’Adige del 12 febbraio pubblica un ampio intervento del consigliere provinciale Alessio Manica, del PD, che enuncia le inopportunità dell’intervento della Provincia, in precedenza evidenziate anche da altri scritti già pubblicati, per costruire la Trento Music Arena per il concerto previsto a maggio di Vasco Rossi, primo di quelli che dovrebbero essere eventi di massa. Trovo tuutte le inopportunità elencate assai rilevanti e condivisibili. Mi dispiace che promotore di questa iniziativa sia un Presidente della Provincia che io personalmente e la lista UDC-Centro Popolare abbiamo sostenuto. Tale intervento non era nel programma e neppure è compatibile con i criteri generali di tipo politico e programmatico adottati. A quanto scritto da Manica e anche da Francesco Borzaga aggiungerei altre considerazioni, in parte già pubblicate da l’Adige. La prima e più importante è l’incoerenza di tale direzione di politica culturale con strategie di potenziamento dell’autonomia del popolo trentino. E’ un passo in avanti verso la massificazione eterodiretta, che toglie anima ai fondamenti culturali dell’autonomia, già erosi di per sè da fenomeni non controllabili e massificanti. C’è da chiedersi se non abbiano ragione coloro che rilevavano in ciò una carenza di cultura autonomista specifica della Lega, che ha avuto e ha fondamenti al riguardo diversi da quelli dello spirito autonomista autoctono trentino. Un sintomo non rilevante è lo stesso nome dato alla struttura, una denominazione inglese, come si conviene a chi si adegua ai processi di massificazione contemporanei. Il Presidente della Giunta Provinciale in un suo intervento istituzionale ha vantato la capacità della Giunta di dire sì, evitando gli immobilismi di chi pratica la cultura del no. Spero che si sia trattato di un discorso dettato da nervosismo. Non si può difendere una scelta politica solo per non dire sempre dei no. Le motivazioni politiche devono essere di altro spessore culturale, ma mancano. Conta solo attrarre gente, non importa come e perché. Coalizione popolare autonomista si è denominata la maggiorasnza di governo quando si è presentata agli elettori. Il popolarismo e l’autonomismo aborrono le massificazioni, tanto più se hanno il sapore di dipendenza da culture esterne. Avevo acquistato a suo tempo nelle vicinanze della futura Arena un terreno per costruire un’abitazione per la famiglia. Comune e Provincia hanno cambiato in fretta le norme urbanistiche che lo consentivano e rallentato i processi decisionali della domanda di concessione per impedire la realizzazione del progetto, motivando i dinieghi, anche successivi in occasioni di varianti, con la scelta di non favorire l’edificazione nello spazio fra la città e Mattarello. Constato che anche i più severi cirteri di pianificazione cedono il passo quando di mezzo non c’è una giovane famiglia con figli e e basso reddito, ma gli interessi politici di persone che contano.

Per due sindaci corso di formazione su economia montana e presenza lupi

lettera non pubblicata da l’Adige

Caro Direttore,
L’Adige del 1° febbraio pubblica due interviste ai due sindaci di Folgaria e di Brentonico, comuni nei quali i lupi hanno fatto “cronaca”. Se mi consente, vorrei mettere in evidenza l’insufficienza delle loro posizioni sul problema lupi, posizioni che posso così riassumere:
1. attenzione agli interessi degli allevatori con sostegni a sistemi protettivi e rapidità nel pagamento da parte della Provincia dei danni subiti:
2. abbattimento dei lupi problematici;
3. campagna di informazione che tranquillizzi la popolazione, non usando il lupo attaccare l’uomo.
Ciò che colpisce, soprattutto da parte di sindaci di comuni di montagna con ampie superfici a prato e pascolo, è la totale non considerazione dei danni del lupo non immediati, ma nel giro di pochi anni, e non ai soli allevatori, ma all’intera popolazione e all’economia di montagna. In un’intervista a una TV locale il neo Presidente dell’Associazione Allevatori del Trentino, Giacomo Broch, ha insistito con argomentazione appropriate sullo scoraggiamento che la presenza dei lupi esercita sulla pratica di pascolo e indirettamente di taglio dell’erba delle piccole superfici a prato un tempo definite “maggenghi”. I rimedi che i due sindaci hanno ripetuto da dichiarazioni di enti e associazioni animaliste sono solo palliativi assai poco efficaci. I lupi scavalcano reti elettrificate anche le più alte oggi in produzione; il terreno irregolare assai frequente in montagna rende poi più facile il superamento della rete. Nessun allevatore trentino continuerà ad allevare e curare animali per la previsione di rimborso, anche rapido, delle predazioni subite; se le cose non cambiano, pochi anni di pazienza nell’attesa che la situazione cambi e poi smetterà. Le campagne informative hanno scarsa efficacia nel produrre il convincimento dell’innocuità per l’uomo di branchi di lupi affamati, e sempre più affamati quanto più, senza nemici, si moltiplicano rapidamente. Se poi un lupo è problematico o meno lo si sa solo dopo che ha compiuto aggressioni. La storia di Cappuccetto Rosso nessuno se la sarebbe inventata se fosse certo e impensabile che dei lupi affamati (o semplicemente cacciatori per istinto e divertimento) non aggredirebbero mai un essere umano, specie se non in grado di difendersi, come un bambino o un anziano o un handicappato nei movimenti.
Folgaria e Brentonico sono comuni montani ad alto sviluppo turistico. Tutti gli esperti di turismo vedono nella cura dell’ambiente rurale montano un fattore attrattivo. L’inselvaticamento delle valli osservabile in molta parte delle Alpi occidentali, specie francesi, ha ridotto l’attrattività turistica alle grandi stazioni alberghiere d’alta quota per gli sport invernali. Forse la campagna informativa della Provincia andrebbe fatta per i sindaci dei comuni montani, incapaci di vedere le conseguenze future dell’aver tolto ai lupi l’unico “vertice” che ne controlla la diffusione e che per secoli e millenni era stato l’uomo.
Cordiali saluti,
Renzo Gubert (allevatore a tempo parziale di asini e capre, già segretario della Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati, già Presidente della Commissione Agricoltura, Ambiente ed Enti locali dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, già professore ordinario all’Università di Trento di Sociologia urbano-rurale e professore a contratto di Sociologia delle Comunità locali)

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