Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Ddl Cirinnà e diritti: quali?

di il 4 Febbraio 2016 in famiglia con Nessun commento

sabato 23 gennaio diversi movimenti e associazioni hanno promosso in molte città manifestazioni per rivendicare parità di diritti tra coppie omosessuali e coppie unite in matrimonio. Al di là delle differenti valutazioni sul numero di partecipanti (gli organizzatori parlano di un milione e altri di venti-trentamila), ho notato come giornali e TV pubbliche (specie RAI 3) abbiano riproposto l’affermazione che bisogna colmare un ritardo dell’Italia rispetto agli altri paesi europei, che tale parità avrebbero già garantito. In realtà altri paesi hanno legiferato in merito alle coppie di fatto (anche omosessuali), la Corte di Strasburgo ha rilevato la mancanza di una legge italiana in merito, ma dover legiferare non significa dover garantire parità di diritti tra coppie omosessuali e coppie di uomo e donna unite in matrimonio. L’Italia non è affatto tenuta a ciò, senza contare che in materia di famiglia e matrimonio vi è autonomia di ciascuno Stato.

In Italia i diritti degli omosessuali come persone sono stati garantiti da pratiche amministrative e decisioni giurisprudenziali. Semmai potrebbe essere utile un testo unico legislativo che li riunisca. Sono garantite anche le libertà inerenti a scelte relazionali, quali la scelta di persone di fiducia (per rapporti con le istituzioni sanitarie, penitenziali) o la destinazione testamentaria del patrimonio disponibile. Con atti privati notarili due o più persone possono stabilire diritti e doveri reciproci. Non sono, quindi, questi, i diritti di cui parlano gli organizzatori di quelle manifestazioni. Sono diritti aggiuntivi, inerenti non alla libertà individuale, bensì all’acquisizione di quei benefici che la legislazione italiana prevede per le famiglie unite in matrimonio, e che trova fondamento nella Costituzione. Ma la Corte Costituzionale in una recente pronuncia ha stabilito in modo chiaro che la regolazione di relazioni omosessuali non può omologare tali relazioni a quelle matrimoniali, tant’è vero che anche il Presidente della Repubblica ha richiamato ufficiosamente a ciò il Parlamento e si stanno mettendo a punto emendamenti che, almeno formalmente, non rimandino a norme del Codice Civile che regolano la famiglia.

Si può allora affermare che non esiste una lesione del principio di uguaglianza di diritti, essendo diverse le situazioni, quella familiare e quella delle coppie di omosessuali. Ma di ciò nulla si è detto nella gran parte dei mass-media.

Le misure di favore per la famiglia che la Costituzione impegna la Repubblica ad adottare trovano fondamento nel ruolo sociale essenziale che le famiglie svolgono per la società. Non mi pare che analoghe funzioni siano proprie delle coppe omosessuali, come di altri tipi di convivenza non familiare. Se così invece fosse, si dovrebbe sostenere che la Repubblica deve favorire la formazione di coppie omosessuali, ma fino a tanto finora nessuno Stato è giunto. Ne consegue che non ha giustificazione l’impiego di risorse della collettività per sostenere convivenza omosessuali. Tale è il caso della pensione di reversibilità e la riserva al partner superstite del diritto di occupare un alloggio pubblico: modi incongrui di impiego delle risorse pubbliche. Ancor più contestabile è il cambiamento delle norme che riguardano la filiazione: si rivendica una “parità di diritti” al figlio, dimenticando il diritto del bambino a un padre e a una madre e l’aberrazione della pratica dell’utero in affitto, cui necessariamente devono ricorrere le coppie di omosessuali maschi per avere un figlio. Di questo si tace da parte degli organizzatori della manifestazione, salvo anche opporsi a considerare colpevole di reato chi all’estero si fa fare (compra) un figlio, nascondendosi dietro il fatto che in Italia tale pratica è vietata.

Scandalosa una trasmissione radio sul terzo programma Rai, lo scorso lunedì mattina, tutta centrata nel far credere che l’adozione del figliastro rappresenta il raggiungimento di un giusto diritto del bambino. Nessuna menzione dei modi nei quali un omosessuale si può procurare un figlio.

Per questo nella piena consapevolezza che in gioco non è il riconoscimento di diritti della persona, ma uno stravolgimento di rapporti fondamentali familiari, fortemente negativo per il bene comune, sabato 23 gennaio scorso ho partecipato alla dimostrazione, a Trento, delle Sentinelle in piedi e sabato prossimo parteciperò al Family Day a Roma.

Anno santo della misericordia: da dove?

di il 16 Gennaio 2016 in religione con Nessun commento

Si moltiplicano le “porte sante” e i richiami alla misericordia di Dio. Confesso che stento a mettermi in sintonia, complice, forse, anche la conoscenza da sociologo delle dinamiche dell’etica nelle nostre società occidentali o occidentalizzate. La misericordia è apprezzata da chi ha commesso delle colpe o da chi, essendogli state perdonate le colpe, vede ridotta la pena. Non mi pare che nelle nostre società vi siano le condizioni per apprezzare la misericordia di Dio. Il senso del peccato si è assai ristretto; si sono scoperti peccati “sociali” (specie in materia ambientale), ma pochi sono i peccati personali che la coscienza sente con forte rimorso. Per i primi la misericordia riguarda, semmai, l’intera società e ciascun individuo facilmente si ritaglia un ruolo di quasi innocenza. Per i secondi non mi consta che i cristiani avvertano con paura il castigo di Dio. Per molti , nei rari casi sentiti dalla coscienza, basta un pentimento; per ormai pochi si ricorre alla confessione, dopo la quale tutto è risolto, tutto è perdonato. Ancor meno avvertito è il timore della pena, che le indulgenze concesse dalla Chiesa, tra le quali quelle plenarie, e tra esse quelle giubilari, promettono di ridurre o eliminare. Il permissivismo etico è un tratto caratteristico delle nostre società, salvo che per qualche azione particolarmente odiosa e “anti-sociale”. Non è un caso che nel celebrare la messa non siano rari i sacerdoti che, nella parte penitenziale iniziale, invitano a chiedere perdono non più dei “peccati”, ma delle “difficoltà”, avendo il pudore di usare una parola che la gente, anche quella fedele, stenta ormai a capire.

Mi sono chiesto perché, allora, Papa Bergoglio abbia indetto un Giubileo della misericordia. E ho ipotizzato due spiegazioni. La prima rimanda al divario di secolarizzazione esistente tra l’Europa secolarizzata ed eticamente relativista e le comunità cristiane dell’America Latina, dalle quali Papa Bergoglio proviene. Il venire dalla Polonia spiegava alcuni accenti di Papa Voityla; il venire dal Sud America può spiegarne altri di Papa Bergoglio. Da quel poco che conosco, in base alle ricerche compiute anni fa sui valori in Brasile e Argentina, in quelle società la secolarizzazione e il relativismo etico erano significativamente minori che in Europa (Italia compresa). Il senso del peccato e il timore del giudizio di Dio vi sono più vitali.
La seconda rimanda al “progressismo cattolico”, cui molti ascrivono anche Papa Bergoglio, e che ebbe proprio anche in America Latina vivaci manifestazioni dopo il Concilio Vaticano II. Per i progressisti è importante che la Chiesa non entri in conflitto con “il mondo”, ma con esso stabilisca un dialogo volto alla comprensione, nella fiducia che ciò che accade sia “segno dei tempi” segno che manifesta la presenza dello Spirito nella storia. Ovvio che questa impostazione valga anche per la secolarizzazione, percepita allora dai progressisti come “purificazione” del messaggio evangelico e valga per l’etica, specie nell’ambito della vita, della sessualità e della famiglia, quello che più si distanzia nelle nostre società dall’etica tradizionale cattolica. Solo in pochi casi si è giunti da parte di moralisti cattolici (più spesso da protestanti) a legittimare moralmente i rapporti sessuali prematrimoniali, il vivere una sessualità omosessuale, il divorzio (tra i cattolici sotto forma di facile dichiarazione di nullità del matrimonio), ecc. ma è invece diffusissima la convinzione, anche nel clero, che a proposito di tale ambito dell’etica, più che di veri e propri peccati (e non si dice più “gravi”) si tratti di “debolezze”, “difficoltà”, che la “misericordia di Dio” non può che considerare trascurabili. L’insistere sulla “misericordia” ( e sorprende che di questo messaggio ecclesiale si facciano portavoce mass media di solito poco inclini a sostenere il magistero ecclesiale) altro non sarebbe, quindi, che una manifestazione dell’indebolimento delle certezze etiche, per non entrare troppo in conflitto con il relativismo etico della cultura dominante.

Da padre di famiglia, constato che il rimprovero ai figli è in generale in proporzione alla gravità delle violazioni di norme e valori. Su cose da poco si può passare sopra; su fatti gravi prima di dare il perdono serve un ravvedimento profondo e talora anche un castigo. Se si insiste sulla misericordia, senza prima richiamare la gravità delle violazioni, si dà l’impressione che in fondo, quelle mancanze non siano poi così gravi. Altrimenti ci sarebbe un castigo (la pena). Perché Dio Padre non dovrebbe comportarsi come un buon padre?
Non si può escludere che entrambe le spiegazioni ipotizzate abbiano elementi di verità. Sarebbe interessante capire se vi sono altre spiegazioni. L’assumere il messaggio giubilare in modo acritico, come sembra facciano i più, non mi sembra il modo migliore per vivere la Chiesa.

Coppie di omosessuali: nebbie artificiali su riconoscimento e adozione figli

di il 7 Gennaio 2016 in famiglia con Nessun commento

la discussione in Senato del disegno di legge Cirinnà (PD) a fine gennaio ha moltiplicato i dibattiti sul riconoscimento da dare ai rapporti di coppia fra omosessuali. Gli schieramenti pro e contro si sono abbastanza delineati. Ed emergono divisioni non solo tra formazioni politiche, ma anche al loro interno. I temi più dibattuti sono la natura di ciò che è riconosciuto e le conseguenze del riconoscimento. Secondo coloro che, sensibili alla tutela della famiglia, militano in gruppi politici che vogliono il riconoscimento delle coppie omosessuali, costituirebbe un fatto positivo il fatto che nel disegno di legge il riconoscimento sarebbe diventato ancorato all’art. 2 della Costituzione (riconosce le formazioni sociali nei quali si sviluppa la personalità) e non all’art. 29 che riguarda la famiglia fondata sul matrimonio. A parte che anche la famiglia è una “formazione sociale”, il fatto che il richiamo sia all’art. 2 e non al 29 ha solo un tenue valore simbolico. Di fatto non cambierà in nulla la percezione sociale di una coppia omosessuale come una delle espressioni della sessualità di coppia, al pari della coppia formata da uomo e donna.
Il fatto trova esplicita immediata conferma proprio nella stessa legge, che prevede che una coppia di omosessuali possa avere dei figli; poiché biologicamente questo può accadere solo per uno dei maschi, si dà la possibilità all’altro di adottare (con formula speciale) il figlio concepito con il seme del compagno. Chi sostiene il disegno di legge afferma che, una volta che il figlio esiste, è meglio per lui che tutti e due i componenti della coppia siano responsabilizzati come “genitori”. L’adozione del figliastro sarebbe quindi il modo di mettere al centro gli interessi del bambino. Non cambia molto la proposta di far precedere l’adozione da un periodo di “affidamento rafforzato”, rafforzato perché non richiede revisione biennale. Si tratterebbe, anche in questo caso, di una differenza dal tenue valore solo simbolico. Di fatto anche questa proposta emendativa, che forse verrà presentata dai “cattolici” del PD, non fa venir meno la principale controindicazione della norma sulla filiazione della coppia omosessuale maschile: l’incentivo a procurarsi un figlio ricorrendo al pagamento di una donna affinché si presti a una gravidanza, il cui figlio verrà poi consegnato, appena nato, al pagatore. I difensori del disegno di legge Cirinnà fingono di non accorgersi dell’incentivo alla maternità su pagamento che deriva da tale legge, affermando che in Italia la pratica dell’”utero in affitto” è vietata. Tacciono sul fatto che in alcuni altri paesi è legale (e quindi utilizzabile anche da italiani) e si oppongono a che la legge italiana consideri reato il ricorso all’utero in affitto anche se compiuto all’estero. Non dicono, inoltre, che quella pratica è antiumana per la donna e per il figlio “prodotto”.E’ l’evidente conferma che la filiazione è considerata coessenziale al riconoscimento della “formazione sociale” coppia omosessuale”. La stessa codificazione di altri diritti, tra i quali la più rilevante e costosa, la “reversibilità” della pensione, rende evidente come la legge Cirinnà introduca in Italia il matrimonio tra omosessuali, chiamandolo in altro modo, “unione civile”.
Gli schieramenti parlamentari fanno prevedere che con i voti PD,M5S, Sinistra, Verdiniani e altri il disegno di legge Cirinnà verrà approvato. Credo che si tratterà di un altro passo in direzione negativa, cui probabilmente nemmeno Sodoma e Gomorra erano arrivate, se non altro per l’indisponibilità delle tecniche di procreazione oggi disponibili. Il rispetto per il bambino e per la donna cedono il passo alla soddisfazione di un desiderio di un figlio da parte di una coppia di soli maschi. Spero, solo, che un referendum possa poi almeno in parte rimediare. Ciò che mi scandalizza è lo scarso valore che alla questione è data dal gruppo parlamentare di “Area Popolare”, il Nuovo Centro-destra e l’UDC insieme, disposti a continuare a far parte di un’alleanza di governo con il PD, principale proponente della legge. V’è da chiedersi quale debba essere la divergenza politica con il PD per mettere in questione la collaborazione di governo. Se su questi valori si è disposti a digerire tutto, vuol proprio dire che nessun valore conta più della rendita politica derivante dal far parte di una maggioranza governativa. E questo mi dispiace particolarmente perché del gruppo parlamentare dell’UDC a lungo ho fatto parte.

Conflitto di interesse e ipocrisia diffusa

di il 2 Gennaio 2016 in COMMERCIO con Nessun commento

in questi giorni si è aperto il dibattito sul modo nel quale sono gestite le banche, con particolare riferimento a quella dell’Etruria, per la quale il Governo non ha attivato procedure di salvataggio, facendo così pagare per il fallimento non solo gli azionisti, ma anche i possessori di un particolare tipo di obbligazioni (dette “subordinate”). Sotto accusa degli amministratori che avrebbero favorito per i prestiti loro stessi o loro amici, superando le necessarie prudenze nel concedere denaro. Il fatto che amministratore sia stato e sia anche il padre della ministra delle riforme Boschi ha avuto risvolti politici, con mozione di sfiducia alla ministra da parte del M5S.

Mi sembra di dover notare nei commenti a tale vicenda una notevole dose di ipocrisia; mi chiedo se non sia del tutto normale nella nostra società che si aspiri a cariche da cui dipendono decisioni rilevanti per interessi propri o di amici o clienti semplicemente per tutelare tali interessi. Accade così nelle cariche societarie di imprese economiche, tra le quali le banche, che hanno poteri economici rilevanti sul credito, ma accade così anche per le cariche amministrative, politiche, in associazioni che hanno qualche potere. Il “conflitto di interesse” è condizione normale: il primato spetta assai spesso all’interesse proprio o dei propri amici o clienti; quello dell’istituzione è per lo più posposto, se pur si riesca a capire quale sia, distinto da quello dei decisori.

Da sociologo non posso che rilevare come la struttura formale di un’associazione, di un’impresa o di un’istituzione raramente trovi corrispondenza in quella informale, che cerca di essere poco visibile. Le “regole” manifeste chiedono rispetto dei fini istituzionali; le esigenze di chi amministra non si compongono di necessità con i fini istituzionali, e a prevalere, di norma, sono esse.

Quanti sono gli amministratori comunali che tali sono diventati per poter controllare a vantaggio proprio o di amici o clienti le decisioni comunali in materia di urbanistica o di assegnazione di contratti di acquisto o d’opera? E come si spiega la competizione per diventare amministratori della casse rurali? Devozione verso gli ideali della cooperazione? E quella per entrare nei Consigli di Amministratori di enti vari? Disinteressato impegno per i fini dell’ente?

Le uniche cose che possono variare sono la misura nella quale si persegue l’interesse “particolare” e la procedura più o meno accorta con la quale si maschera tale interesse.

Non ci si può nascondere che vi sia che resta fedele, nel suo amministrare, solo agli interessi istituzionali; non è impossibile e dipende dalla statura morale dell’amministratore. Ma questa dipende dalle convinzioni circa il senso della propria vita. Non è un caso che nelle indagini sui valori, che da oltre trent’anni seguo, sia proprio una più forte religiosità a nutrire un maggiore rigore etico, e non solo in tema di sessualità e vita, ma anche in tema di doveri verso la collettività.

Che senso ha, allora, denunciare i tradimenti dell’interesse collettivo, lo stravolgimento dei fini istituzionali per un interesse egoistico, e nello stesso tempo svalutare la religiosità, limitarne la portata e il significato anche sociale in nome di una “laicità” che rende “sacri” valori della struttura formale, che è vuoto simulacro se manca un fondamento nei “valori ultimi”?

popolarismo e liste civiche

il Trentino del 23 dicembre pubblica un ampio intervento di Elena Albertini in merito al possibile raccordo tra formazioni civiche ed espressioni politiche del popolarismo, analizzandone le condizioni. I riferimenti sono fondamentalmente alla realtà trentina, ma il tema si sta ponendo anche su scala nazionale. Al seminario di Orvieto del 28 e 29 novembre scorsi (che ha approvato il Patto di Orvieto) partecipavano non solo formazioni politiche di ispirazione popolare, ma anche esponenti di esperienze elettorali civiche rilevanti anche a livello regionale (es. in Puglia, in Umbria). Si sta assistendo a un processo di riorganizzazione politica dell’area che alcuni chiamano “moderata” (come se quella egemonizzata da PD di Renzi non lo sia), ma che preferirei definire di ispirazione popolare, che trova radici nell’umanesimo cristiano, liberale nel senso di Rosmini e Sturzo ma anche sociale (dottrina sociale della Chiesa, mutualismo, cooperazione, sindacato, economia sociale di mercato), quell’umanesimo che ha informato di sé la Costituzione italiana.

Elena Albertini condiziona la ripresa di tale presenza politica all’emergere di un leader che sappia coagulare e attrarre consensi. Per ora tale leader non emerge, ma credo che il processo possa essere costruito ugualmente. Uno dei fattori che ha facilitato tale processo sta nella convinzione che il valore della democrazia come partecipazione non debba essere posposto alla rapidità dei processi decisionali garantiti dalla concentrazione del potere in una persona, in qualsiasi modo essa sia stata scelta direttamente alle elezioni. Tale posposizione era avvenuta prima con Berlusconi ed ora con Renzi. Tutta l’esperienza democratica della Repubblica fino ai primi anni Novanta era connotata dalla partecipazione, coinvolgendo le varie formazioni sociali; non era limitata al momento elettorale, peraltro pur esso attento alla rappresentatività, alla corrispondenza tra suffragi ottenuti e rappresentanza nelle istituzioni deliberative, principio regolativo essenziale della democrazia. La partecipazione motivava anche il rispetto delle autonomie, sociali e territoriali. Il movimento delle liste civiche esprime il desiderio di poter partecipare alle scelte di interesse della comunità, disconoscendo i partiti affermatisi negli ultimi vent’anni come strumenti efficaci per realizzare tale desiderio. E il fatto che quote rilevanti dei cittadini sentano tale movimento come positivo lascia sperare che la situazione possa cambiare. A ben pensare anche il rifiuto di votare è sintomo di distacco da un sistema politico verticista, come lo è l’innamoramento per metodi di partecipazione elettronica tipica del Movimento 5 Stelle, pur essendo tali metodi altamente selettivi, lasciando fuori dai processi partecipativi la grande maggioranza dei cittadini.

A livello nazionale le formazioni politiche interessate alla ricostruzione del popolarismo stanno orientandosi a sostenere il NO al prossimo referendum sulla riforma costituzionale voluta da Renzi (peraltro non ancora approvata in seconda lettura). La Albertini si chiede se forze politiche trentine che sostengono Renzi siano veramente ispirate al popolarismo. Il medesimo interrogativo a livello nazionale si può porre per “Area Popolare”, il gruppo parlamentare che unisce UDC (quel che resta) e NCD e che sostiene Renzi. Qualcuno si accontenta del fatto che Renzi, da giovane, è stato un popolare, ma le posizioni in tema di democrazia partecipata che egli ha espresso ed esprime (da ultimo sulle elezioni spagnole) fanno dire che semmai il valore della democrazia partecipata è espresso più dalla vera sinistra, non a caso a lui in opposizione.

Il terreno primo di incontro tra movimenti civici e movimenti ispirati al popolarismo di Sturzo e Degasperi, a livello locale e nazionale, è quindi, a mio avviso, quello della concezione della democrazia. Senza democrazia partecipata non c’è popolarismo e non c’è civismo. C’è tecnocrazia o elitismo vestiti da parvenze democratiche, che del resto non sono per lo più mancate neanche nei regimi più autoritari. Come si ricava dalle ricerche europee sui valori (EVS) è il culto dell’efficacia, della rapidità decisionale, della competenza tecnica il tarlo che sta corrompendo le democrazie oggi: popolarismo e civismo sono chiamati ad essere l’antitarlo.

il virus tecnocratico in Trentino

di il 11 Novembre 2015 in COMMERCIO con Nessun commento

Due temi di questi giorni relativi a decisioni o prese di posizione di chi amministra la Provincia Autonoma mi hanno colpito per il tipo di valori che lasciano trasparire: l’individuazione degli ambiti sovra-comunali per la gestione associata di gran parte dei servizi comunali e la proposta dell’assessore alla Sanità (qualcuno dice che non abbia fatto che rendere pubblica una posizione del Presidente della Provincia) di provincializzare in un’unica ente le case di riposo finora rette in modo autonomo.

In entrambi i casi viene mortificata l’autonomia delle comunità locali in nome di logiche tecnocratiche. Dalle indagini sui valori che da tre decenni ho seguito in Italia e in Europa si ricava come il valore della democrazia si sia ormai largamente affermato, non più eroso da orientamenti esplicitamente autoritari. Il valore della democrazia è però colpito gravemente da un virus relativamente nuovo, quello tecnocratico, contro il quale sembrano mancare difese. L’autonomia e il valore regolativo della sussidiarietà derivano direttamente dai valori della libertà e della democrazia; il virus, quindi, fa morire anche autonomia e sussidiarietà. Che ciò accada in modo così evidente con un governo di centro-sinistra, e per dei più a guida autonomista, non fa altro che confermare la gravità dell’infezione in atto, dato che della democrazia partecipata e dell’autonomia centrosinistra e autonomisti hanno sempre fatto grandi bandiere.

Ho letto le decisioni della Giunta Provinciale (assessore Daldoss, uomo di fiducia del Presidente) circa gli ambiti per l’esercizio associato; meriterebbero un’analisi specifica per capirne le ragioni. Tuttavia gli ambiti appaiono in molti casi del tutto scollegati dalle realtà comunitarie che vi vivono. Mi limito a due esempi che conosco bene. Un primo caso eclatante è quanto accaduto a Primiero: negata la deroga a Canal San Bovo, che corrisponde a un’intera valle, con molti villaggi, per di più svantaggiata e costretto il Comune di Sagron-Mis ad associarsi non al vicino nuovo Comune di Primiero-San Martino di Castrozza, ma agli altri comuni di Primiero. Un secondo totalmente privo di logica “comunitaria” è l’unire nel medesimo ambito i comuni del fondovalle orientale della Bassa Valsugana e i comuni del Tesino. I “Tesini” hanno un’identità e un’area di residenza distinte che meritavano almeno la stessa considerazione che hanno avuto altre piccole comunità, riconosciute come Comunità di valle. E si potrebbe continuare. La logica dei “numeri di abitanti” ha nettamente prevalso in modo autoritario. Esempio di ragionamento tecnocratico.

Ancora più radicale l’approccio tecnocratico evidenziato dalla proposta dell’Assessore alla Sanità sulle case di riposo. Lo stupro dell’autonomia locale e sociale vi è teorizzato in nome della “razionalità tecnica”. Con questa logica non mancherà molto tempo per vedere proposte come unificare tutti i comuni del Trentino in un solo comune provinciale (in fondo dil Trentino non è che un quartiere di Milano….), unificare tutte le scuole materne, provincializzando quelle autonome di comunità, unificare tutte le bande musicali, tutti i cori, ogni forma organizzata di attività che goda di sostegno finanziario della Provincia. Viene il dubbio che l’autonomia sociale e locale per chi amministra la Provincia non sia un fatto positivo da sostenere, ma un fardello costoso da eliminare.

Se un governo di centro-sinistra a guida autonomista percorre la strada tecnocratica che nega valori fondamentali perché portano a spese “poco razionali”, l’unica speranza per il Trentino, per un Trentino a democrazia partecipata, diffusa, ad alto tasso di autonomia locale e sociale, sta nella crescita di liste civiche. Il risultato delle ultime elezioni comunali anche in alcuni centri rilevanti del Trentino potrebbe rendere tale speranza non vana. A meno che gli autonomisti non tornino ad essere tali.

accoglienza immigrati: virtù insufficiente

di il 1 Settembre 2015 in migrazioni con Nessun commento

“L’accoglienza è ancora una virtù” titola in prima pagina l’ultimo numero di Vita Trentina. Sorprende per certi aspetti l’avverbio “ancora”, come se ci fossero dubbi. E i dubbi ci sono se Vita Trentina applica quel titolo, in modo esplicito, sempre in prima pagina, ai “richiedenti asilo”, una netta minoranza.
Poi, però, nei testi citati nelle pagine interne, anche di esponenti di rilievo nazionale del clero cattolico, il messaggio si fa più generico: l’invito all’accoglienza riguarda ogni tipo di migrante, contrapponendosi in modo anche esplicito a chi, titolare di responsabilità politiche, richiama invece il problema del controllo dei flussi di migranti attraverso i confini nazionali o statali.
Come sovente accade, anche chi ha responsabilità ecclesiali applica meccanicamente e indebitamente principi etici validi per i rapporti interpersonali a questioni attinenti al buon funzionamento (bene comune) della vita collettiva politicamente organizzata. E’ frutto della maturazione politica dell’umanità l’organizzarsi in entità collettive, a base per lo più territoriale. Affinché tale organizzarsi raggiunga i suoi fini di bene comune, tali entità istituzionalizzano dei confini, con regole per filtrare i flussi (di persone, oggetti e messaggi) attraverso di essi. Tali regole possono essere più o meno permissive, ma sono comunque necessarie per il raggiungimento dei fini della comunità politica, tra i quali preminente quello della sicurezza, bisogno fondamentale di ogni essere umano.
Quale è il messaggio che su tali regole dà la comunità cristiana e chi in essa ha responsabilità di guida? Il problema nella sua specificità non è affrontato. Ci si accontenta di proclamare la virtù dell’accoglienza, come se non fosse razionale e doveroso per il bene comune fissare limiti ai flussi immigratori. Se si deve comunque accogliere tutti coloro che lasciano la loro comunità politica per entrare nei territori di un’altra, evidentemente si nega la positività anche etica della regolazione dei flussi. Se non si vuole ciò, bisognerà pur convincersi che non ogni persona può essere accolta in casa propria, nel territorio della propria comunità politica, anche se lo desidera e fa di tutto per realizzare il suo desiderio, anche a rischio della propria vita.
Anziché offendere coloro che richiamano il problema dei controlli dei flussi migratori, come ha fatto in modo inusitato per il ruolo ecclesiale ricoperto il segretario della Conferenza Episcopale Italiana, chi ha responsabilità ecclesiali, particolarmente nel campo dell’etica sociale e politica, dovrebbe, a mio avviso, cercare di affrontare il tema dei controlli dei flussi attraverso i confini delle comunità politiche in modo appropriato, specifico. Il richiamare la virtù dell’accoglienza può avere un suo significato anche a tale livello di riflessione etico-sociale, orientando a regolazioni più aperte. Ma diventa solo un esempio di uso integralista del principio cristiano dell’amore per tutti gli uomini se intende esaurire la questione etico-sociale della regolazione dei flussi.
Tonadico, 30 agosto 2015
Renzo Gubert

Orsi in Trentino: egemonia cultura urbana

di il 16 Agosto 2015 in COMMERCIO con Nessun commento

 

su l’Adige  l’antropologo Duccio Canestrini afferma che l’orso non è nostro nemico e che i media avrebbero la colpa di alimentare “una paura irrazionale”. Ci sarebbero ben altri pericoli. Colpa delle popolazioni umane trentine sarebbe quella di non sapere più concepire “spazi naturali selvatici”. Giusto che vi siano “zone impervie, incolte, selvagge e potenzialmente pericolose per i frequentatori disinformati”. Anacronistico sarebbe per Canestrini pensare alle esigenze di “economie di sussistenza (agricoltura di montagna e pastorizia)”.

Quanto l’antropologo Duccio Canestrini esprime rappresenta, a mio avviso, un esempio, fin troppo evidente, del modo di pensare proprio di una cultura urbana sofisticata (non quella popolare) che vuole arricchire la sua esperienza nel tempo libero con il piacere di avere, a portata di fine-settimana, la possibilità di visitare “spazi naturali selvatici”, aree pericolose. Canestrini critica giustamente un Trentino “Disneyland”, ma lui propone solo di aggiungere al Trentino Disneyland un settore “selvaggio” per frequentatori “bene informati”.

Nel Trentino vi sono cultori di tale modo di pensare, specie tra gli intellettuali urbani, ma la maggior parte della gente è di avviso opposto. Vi sono i tanti che nel bosco, anche incolto e selvaggio, vogliono andare per raccogliere funghi o altri frutti selvatici o semplicemente per godere la natura, senza timori di grossi pericoli (il pericolo del morso di vipera si può affrontare con il kit apposito antiveleno) e vi sono i non molti, ma non pochissimi, che praticano l’agricoltura e la pastorizia di montagna. Api negli alveari, pecore, capre, asini, vitelli e manze usano la flora delle aree marginali di montagna: fanno un servizio alla collettività e soddisfano desideri atavici di produrre per il piccolo consumo a Km 0; senza contare le greggi dei pastori, i quali continuano in un duro mestiere che li occupa per tutto l’anno. Perché giudicare anacronistiche le esigenze di questi cittadini? La Provincia paga i danni, ricorda Canestrini. E ancora una volta emerge la cultura urbano-industriale: tutto si misurerebbe, per questa, in denaro. Basta pagare. Il rapporto uomo-animane allevato è visto da questa cultura, che Canestrini esprime, come solo strumentale: in fondo l’avversione all’orso si spiega solo con il desiderio di chi alleva di far ammazzare il suo animale in un macello. Basta pagare e tutto è risarcito. Evidente come manchi all’antropologo esperto delle “dinamiche tra uomo e ambiente” la pur minima conoscenza del rapporto affettivo che si crea tra allevatore e animali allevati. Si curano le api, si allevano le capre e le pecore, anche per averne la produzione (miele, latte) e non solo per la carne. Ciascun animale è conosciuto, è stato curato. E’ l’allevamento industriale che rende del tutto strumentale il rapporto tra animale e allevatore, ma questo si svolge nelle stalle; l’orso o il lupo non fa ad esso problema.

Caro Direttore, finalmente anche i giornali “provinciali” hanno dato spazio alle preoccupazioni della gente, specie da quando un orso ha aggredito nei pressi di Cadine una persona. Spero che sia l’occasione anche di ripensare il rapporto tra cultura urbana di élites intellettuali e cultura popolare, per far apprezzare anche le ragioni di chi si dedica a tradizionali attività pastorali o di chi vuole passare momenti distensivi in montagna, che certo va salvaguardata da Disneyland, ma mantenuta percorribile senza grossi timori. Mia figlia scout ha dovuto spostare il campeggio dai pressi di Malga Brigolina in val Sarentino, in Alto Adige in nome del Disneyland “arricchito” che vorrebbe Canestrini. Io da molti anni allevo capre e asini e finora non ho avuto danni, ma li hanno avuti conoscenti, pur nel Trentino Orientale, meno esposto alla presenza dell’orso. Sinceramente non vedo ragioni sufficienti per sacrificare al “desideri” di persone come Duccio Canestrini, nel Trentino, in Italia e in Europa, un rapporto pacifico tra uomini di montagna e il loro ambiente. Cara Provincia e caro Ministro dell’Ambiente (UDC-Area Popolare): non vi pare giunto il momento di liberare la montagna alpina, la più antropizzata al mondo, da quella porzione di Disneyland rappresentata dagli spazi nei quali gli orsi danno l’emozione del pericolo e del selvaggio pericoloso? Conta di più chi ama queste emozioni, anche solo magari virtuali, oppure la gente che in quella montagna vive?

Papa Bergoglio e i respingimenti di immigrati

di il 16 Agosto 2015 in migrazioni con Nessun commento

La frase pronunciata in un’udienza da Papa Francesco in merito ai respingimenti di persone che intendono migrare ha suscitato reazioni opposte: le più dure da parte dell’on. Salvini, della Lega Nord. La frase del Papa evidenzia con parole forti (respingere è un atto di guerra) la dimensione universalista dell’insegnamento cristiano: tutti gli uomini sono fratelli e come tali vanno trattati. Credo, però, che se non contemperata con altre dimensioni, può aprire a un uso “integralista” della religione cristiana.
Innanzitutto la fraternità universale non esclude una graduazione dei doveri di fraternità, di amore per tutti gli uomini. L’amore tra genitori e figli e tra fratelli e sorelle richiede doveri reciproci più forti di quelli richiesti da legami meno stretti di parentela o di amicizia. E così i doveri reciproci tra gli appartenenti a una comunità politica sono più forti che quelli con persone appartenenti a comunità diverse. Il dovere dell’accoglienza non è il medesimo verso tutti. Le porte chiudibili servono per stabilire un limite all’accesso. E così i confini tra comunità politiche. La Chiesa non ha mai combattuto contro la fissazione di confini e di regole per il passaggio attraverso loro. Anzi, spesso ha contribuito a individuare confini accettati in caso di conflitti (ricordo il caso del confine tra area spagnola e portoghese in America Latina). Il confine e il suo controllo sono stati tra i principali strumenti di pace dell’umanità.
L’affermazione di Papa Francesco presenta, come già in altri casi, ambiguità interpretative, usate da alcuni per affermare l’immoralità dei filtri ai passaggi di uomini attraverso i confini e da altri per applicare il termine “respingimenti” sia ai naufraghi in pericolo di vita o a chi è minacciato di morte, sia a coloro che, per loro desiderio di migliorare la propria situazione, non vogliono sottoporsi ai “filtri” che una comunità politica pone all’ingresso di estranei nel suo territorio.
Può darsi che Papa Francesco non abbia voluto distinguere i due casi, ma ne dubito. Difficile pensare che chi spende migliaia di euri o di dollari per poter fruire di trasporti clandestini per penetrare nel territorio di una comunità politica sia nelle condizioni del fratello povero, affamato, bisognoso, come quello soccorso dal buon Samaritano. E’ anzi una persona (o membro di un clan familiare) che ha la capacità di investire denaro per migliorare in modo rilevante la propria condizione di vita. Come sempre, ad emigrare da contesti di povertà non sono le persone più povere, più in difficoltà, ma quelle che possono raccogliere o guadagnare denaro, privando, tra l’altro, le comunità di partenza, delle persone più innovative. E’ più probabile che il Papa abbia avuto in mente respingimenti di persone che, secondo il diritto internazionale, avrebbero titolo ad essere accolti come rifugiati, ma certamente egli saprà chiarire i possibili equivoci.
Il paragonare i respingimenti ad atti di guerra è certamente forte e obiettivamente esagerato, se essi non avvengono con l’uso di armi, ma semplicemente riportando chi non intende rispettare le regole al suo territorio di origine o di partenza. Vorrei comunque richiamare il fatto che la Chiesa non ha mai condannato di per sé gli “atti di guerra”. Spesso li ha addirittura benedetti da parti opposte in conflitto. La Chiesa ha semmai sempre condannato la “guerra ingiusta”, giungendo a definire come sempre ingiusta (per gli effetti sproporzionati) la guerra nucleare o con armi di distruzione di massa. Per la verità non si sono udite parole decise al riguardo nemmeno per l’uso di bombe nucleari (a Hiroshima e Nagasaki, il cui 50.mo anniversario è ricordato in questi giorni) da parte degli USA. Si può considerare “atto di guerra” di una guerra ingiusta il respingere chi intende penetrare illegalmente nel territorio di una comunità politica? Probabilmente sì se il respingimento avviene provocando mali peggiori di quello che intende evitare (per es. affondando le imbarcazioni cariche di persone, facendole affogare), ma non risulta che ciò avvenga in questi anni. Anzi, si è provveduto a salvare persone che volontariamente si sono esposte al pericolo di naufragio, pagando gli organizzatori del trasporto sapendo di ciò cui vanno incontro. Credo che non serva poi molto a distinguere coloro che hanno diritto all’asilo da chi emigra per desiderio di migliorare la propria condizione senza però sottomettersi alle regole in materia. L’Unione Europea, per es., ha già escluso dal novero degli aventi diritto all’asilo coloro che provengono da paesi non in endemica e generale guerra civile.
Papa Francesco ha voluto lanciare un messaggio forte. Non va equivocato e spero che, come nel caso dell’omosessualità e delle famiglie numerose, lo farà.

Divorzio breve: favorisce la stabilità della famiglia?

di il 8 Maggio 2015 in COMMERCIO, famiglia con Nessun commento

La nuova legge che riduce i tempi della separazione tra coniugi prima di giungere al divorzio è stata presentata come una vittoria dei diritti civili, come una conquista. Pare di capire che il successo completo sarebbe stato ottenuto abolendo del tutto il periodo di attesa tra decisione di separarsi e cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Se uno o entrambi i coniugi hanno perduto la convinzione che sia gratificante per loro continuare il rapporto, sarebbe inutile porre dei limiti di tempo allo stabilire un nuovo rapporto coniugale, nella speranza di una ricomposizione o di dare tempo all’eventuale coniuge abbandonato e ai figli di adattarsi alle nuove situazioni.

La preoccupazione cui la grande maggioranza dei parlamentari, di centro-destra come di centrosinistra, con l’eccezione di un manipolo di persone che si ispirano al pensiero sociale cristiano, ha dato risposta è quella di soddisfare i desideri dei contraenti matrimonio, nulla contando le responsabilità reciproche assunte verso la società, verso il coniuge abbandonato, verso i figli, specie se minori. Sarà un giudice a dirimere le questioni, sperabilmente con il minimo di costi.

V’è un dato da tenere in debito conto: il rendere del tutto facile sciogliere il legame tra coniugi incoraggia o scoraggia la stabilità della famiglia, la preparazione adeguata ad adempiere ai propri ruoli di partner e di genitore, la disponibilità a superare possibili e probabili difficoltà nei rapporti familiari?

Se posso in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo rimangiarmi una decisione, è difficile pensare che sia incentivato a riflettere molto prima di assumerla. Se invece quella decisione è irrevocabile, sono portato a pensarci su assai di più. Posso comprare via internet qualcosa che so di poter rimandare al venditore se non piace, pur se le spese del rendere sono un freno; se invece faccio un acquisto o una vendita di una casa da un notaio, la certezza dei motivi è senz’altro spontaneamente assai maggiore. Se ne deduce che quanto approvato dal Parlamento, relatori congiunti del PD e di FI, funziona come un incentivo alla dissoluzione dei matrimoni. Se ne sente il bisogno? Per dinamiche varie la nostra società, la cultura che vi prevale, porta già i legami familiari a diventare più fragili, con le conseguenze negative per i membri più deboli (figli, coniuge abbandonato). Perché incentivare tale fragilità? Perché togliere “pena” a chi non intende rispettare gli impegni assunti?

Il fatto che solo un manipolo di parlamentari si sia opposto a tale deriva individualista ed edonista e che siano parlamentari che si ispirano al pensiero sociale cristiano rende evidente come i pronunciamenti a favore della famiglia dei partiti che oggi vanno per la maggiore, che non si richiamano in modo espicito e prevalente alla visione cristiana della vita, suonino vuoti!

Renzo Gubert

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