Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Ringraziare Lutero?

di il 6 Novembre 2016 in COMMERCIO con Nessun commento

Vita Trentina del 23 ottobre riporta un’intervista a mons. Brian Farrel, segretario del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani. Tra i temi le celebrazioni dei 500 anni della riforma luterana, che vedranno il 31 ottobre anche la presenza in Svezia di Papa Bergoglio. Il monsignore parla di spirito di amicizia tra cattolici e luterani, dell’opportunità di sottolineare le cose che accomunano anziché guardare a quelle che dividono. Giusto camminare nella reciproca carità, ma mi chiedo che carità, che amore sia quello che nasconde all’altro (o mette tra parentesi) la verità. La verità non si scaglia, certo, ma si dice, in spirito fraterno. Che proprio a Trento, città della riforma cattolica in risposta alla riforma luterana, da parte di mons. Farrel si sconfessi la lunga storia della preservazione della verità contro le eresie luterane e in generale protestanti, dicendo che invece bisogna valorizzare l’apporto alla chiesa universale della riforma protestante, mi è sembrato fuori luogo. Le verità proclamate in modo solenne dal Concilio di Trento, smentendo contrarie affermazioni luterane, sono ancora valide?

Una cosa è orientare i rapporti tra cattolici e protestanti a spirito di carità; altra cosa considerare positivamente gli apporti della riforma protestante. Da sociologo vorrei ricordare come Max Weber rintracci proprio nell’etica protestante la fonte dello “spirito del capitalismo”, che non mi risulta possa essere valorizzato dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica, neppure nella versione ultima di Papa Bergoglio. Anzi! Da sociologo che da decenni studia sui valori, non posso non ricordare come in tema di vita umana e di famiglia sono le società influenzate dalla riforma protestante a non conoscere limiti etici. Per non parlare dell’esigua percentuale di cristiani che assistono alla messa e dell’aumento forte di non battezzati. Non si può tacere, inoltre che è stata proprio la riforma luterana a trasformare il rapporto dialettico tra autorità religiosa e autorità politica realizzato nel Medio Evo e continuato in età moderna, in un’asservimento della chiesa al potere politico, negando la laicità di questo. E non è solo il caso del principio per cui il popolo doveva avere la religione di chi aveva il potere politico (“cuius regio, eius religio”) o della Regina di Gran Bretagna, capo della Chiesa anglicana, ma anche fino a ieri dei paesi luterani nord-europei. Dobbiamo ringraziare di tutto ciò Lutero e la riforma protestante?

Mons. Farrel afferma che tra cattolici e luterani non vi sono poi grandi contrasti. Quelli che ci sono vengono da lui considerati di non grande importanza, un abbaglio preso da Papi e vescovi per 500 anni? Motivati da rivalità? Forse è il caso di approfondire la questione……

Democrazia e vincoli sul sesso nelle preferenze

Su l’Adige del 15 settembre scorso Giorgia De Paoli, già attiva in un istituto delle Nazioni Unite per il progresso delle donne, cerca di addurre ragioni per l’introduzione anche nel Trentino-Alto Adige di vincoli nella libertà di esprimere le preferenze nelle votazioni comunali e provinciali-regionali. Il vincolo che ritiene giusto, e che il Consiglio Provinciale di Trento sta discutendo, consiste nel concedere la possibilità di esprimere due preferenze solo se una è a un uomo e l’altra a una donna, ritenendo che tale vincolo favorisca l’elezione di donne, dato che “spontaneamente” gli elettori e le elettrici tendono a preferire uomini, anche se nelle liste vi sono molte candidate.
Già in altre occasioni avevo espresso la mia contrarietà a introdurre vincoli nella libertà di voto che tendano a favorire l’elezione di appartenenti a qualche categoria. Se si percorre tale strada, si apre la porta a vincoli che favoriscano la rappresentanza di giovani, dato che tra gli eletti sono sottorappresentati, la rappresentanza di coloro che hanno un’istruzione non superiore a quella dell’obbligo, dato che sono sottorappresentati, la rappresentanza di operai, di contadini, di discendenti di immigrati, e così via per altre categorie, dato che sono sottorappresentati. La non giustificazione di tali vincoli appare più chiaramente per le donne, dato che tra gli elettori, sono la maggioranza, non certo impedite, quindi, di votare una buona rappresentanza di donne.
Nella società tradizionale gli affari pubblici sono generalmente gestiti dagli uomini e quelli domestici più spesso dalle donne. Tant’è vero che perfino nell’Italia liberale, fino a settant’anni fa, le donne non potevano neppure votare. La società moderna reclama la parità di diritti tra uomo e donna e l’ha pienamente realizzata: perché “forzare” con vincoli l’esito delle libere scelte di uomini e donne?
Chi sostiene tali “forzature” afferma che servono “misure di discriminazione positiva” per accelerare mutamenti nella direzione che si ritiene più opportuna. Ma il giudizio di opportunità non appare scontato e univoco. L’articolo di Giorgia De Paoli cerca di dare fondamenti obiettivi all’opportunità che in politica ci siano molte donne, ma sono proprio tali fondamenti a mostrare estrema debolezza. E la debolezza consiste in un’ingenuità imperdonabile per un ricercatore: l’attribuzione di valenza causale a semplici concomitanze. Il constatare che in comuni, regioni, stati dove ci sono più donne in politica si registrano anche fatti positivi (più acqua potabile, più assistenza all’infanzia, più congedi parentali, ecc.) non prova che essi siano dovuti proprio alla maggior presenza di elette donne. Si potrebbero trovare altre concomitanze con fatti negativi. Se fosse così chiaro che è vantaggioso avere molte donne elette, non si capisce perché uomini e donne non preferiscano eleggere donne anziché uomini. E Giorgia De Paoli non tiri in campo le discriminazioni contro le donne presenti in alcuni paesi! In Italia queste non hanno influenza alcuna, come non l’ha la regolazione del diritto di voto in Vaticano.
Bisognerebbe invece chiedersi per quale ragione la maggiore propensione degli uomini ad occuparsi dicerti ambiti della vita e la maggiore propensione delle donne ad occuparsi di altri ambiti non possano essere semplicemente espressione della diversità di uomini e donne, non solo fisica, ma anche psicologica e sociale. E bisognerebbe chiedersi perché tale diversità non possa variare da paese a paese, da regione a regione, da città e villaggi, senza dover giudicare negativamente quanto si discosta da un proprio modello, pur se fatto proprio da istituzioni internazionale sulle cui posizioni intervengono lobbies che tale diversità avversano.
Se il Trentino-Alto Adige seguisse un modello diverso da quello seguito da altri, potrebbe semplicemente dare un segnale di “autonomia culturale” nei confronti di spinte conformistiche verso un modello che nega la libertà di articolare una composizione dei ruoli di uomini e donne secondo le preferenze spontanee delle popolazioni.

Regione Trentino-Alto Adige: gli errori non detti di Lorenzo Dellai

di il 5 Ottobre 2016 in autonomia con Nessun commento

Sul Trentino di mercoledì 28 settembre l’on. Lorenzo Dellai replica a un precedente scritto di Flavio Mosconi, critico del modo con il quale la maggioranza di centro-sinistra che ha governato il Trentino negli anni ’90 e nel primo decennio del 2000, per larga parte segnato dal ruolo politico giocato da Dellai, ha svuotato di competenze l’ente Regione sia con riforme costituzionali che con deleghe alle Province. L’autonomia trentina infatti dipende dall’esistenza della Regione! Condividendo l’analisi di Mosconi e ricordando una delle più impegnate azioni di contrasto svolte sia personalmente in Senato, sia con manifesti affissi in tutto il Trentino da parte del Centro Popolare, non posso non rilevare l’inconsistenza della difesa del suo operato manifestata da Dellai.
Innanzitutto l’accusa con la quale Dellai colpisce “una parte della classe politica trentina”, che confonderebbe “la scatola con il contenuto: l’Ente Regione con il “frame” di cui all’Accordo di Parigi”, un errore che avrebbe fatto naufragare il Primo Statuto di Autonomia. Che il “regional frame” dell’Accordo di Parigi si traducesse nella Regione Trentino – Alto Adige non è stato un fraintendimento di una parte della classe politica trentina, bensì quanto voluto proprio da Degasperi e Gruber, i firmatari dell’Accordo, confermato dalla Costituzione (con Degasperi Presidente del Consiglio), che tra le Regioni elenca, come anche oggi, la Regione Trentino – Alto Adige. Il primo Statuto pure è stato approvato dal Parlamento con legge costituzionale ed esso prevedeva la Regione come titolare della gran parte delle competenze, riservando alle Province “di norma” la loro gestione amministrativa. Mi pare che la confusione, l’errore, lo compia Dellai nel tentativo di giustificare i danni che ha poi prodotto circa il ruolo della Regione. Che poi i trentini abbiano cercato di ridurre il ruolo delle province, dando interpretazioni restrittive del “di norma” è vero, e ciò ha dato voce al “los von Trient”, ma la vera forte spinta alla revisione dello Statuto, spinta che si stenta a riconoscere, è derivata dal terrorismo sudtirolese (irredentista) nei primi anni Sessanta, che non aveva accettato l’esito post-bellico della conferma dell’appartenenza del Sudtirolo-Alto Adige all’Italia.
Il secondo Statuto ha potenziato le competenze delle due Province, rimanendo però alla Regione competenze amministrative e ordinamentali. La tripolarità del nostro assetto autonomista era stata accettata e celebrata come soluzione originale e stabile. Dellai cerca di dare ragioni “obiettive” alle decisioni statutarie successive, che lo hanno visto come protagonista politico. Tace su quelle vere. Queste non hanno nulla da vedere con l’opportunità di “tenere insieme due storie” tramite il far diventare la Regione ambito di cooperazione fra le due Province. Dellai voleva l’elezione diretta del Presidente della Provincia di Trento, con sistema elettorale maggioritario, ma per far questo era molto utile (necessario?) avere due leggi elettorali distinte per le due Province, non essendo proponibile (allora) per quella di Bolzano l’elezione diretta del Presidente e un premio di maggioranza, visti i riflessi sulla “proporzionale etnica” e il desiderio degli italiani di avere una rappresentanza autonoma proporzionale. Da questo la proposta di ridurre il ruolo istituzionale della Regione a somma delle due Province (con l’ulteriore mortificazione “politica” poi della staffetta dei due Presidenti provinciali nel ruolo di Presidente della Regione).
A Dellai interessava anche garantirsi una maggioranza sicura nella Provincia di Trento; riducendo il ruolo della Regione, non solo a livello istituzionale, ma anche nelle sue funzioni amministrative (facendo votare anche la delega alle province delle due significative residue competenze regionali, come quella del Fondiario-Tavolare e quella sulla cooperazione), veniva incontro al desiderio della SVP di togliere di mezzo la Regione (mal digerita anche al tempo dell’Accordo Degasperi-Gruber), acquisendo meriti “politici” fatti poi valere nelle alleanze politiche strette dalla SVP in provincia di Bolzano e per le nazionali e le europee e in quelle del PATT (fratello della SVP) in provincia di Trento. In sintesi si può dire che Dellai ha “venduto” la Regione per vantaggi politici suoi e dei suoi alleati di sinistra. Lo stesso senatore Tarcisio Andreolli faceva fatica, in Senato, ad avallare le ciniche posizioni dellaiane (e non è un caso che non abbia poi avuto la conferma della candidatura a senatore).
Dellai afferma che la storia delle due comunità, trentina e sudtirolese, è intrecciata, anche per la lunga comune appartenenza alla Istituzione tirolese. La nuova Regione, però, per lui, non potrà essere “ente di governo”, ossia con proprie competenze da amministrare. Non si capisce perché. Senza proprie competenze e poteri non serve un ente; bastano incontri periodici tra presidenti, giunte, consigli. La competenza su Fondiario-Tavolare era tipicamente espressione della “comune storia” di Trentino e Alto Adige/Suedtirol; eppure ragioni di basso mercato politico hanno indotto a toglierne l’amministrazione alla Regione. Anche la cooperazione trentina e sudtirolese aveva una comune radice nel cooperativismo di matrice tedesca (a differenza di quella delle altre regioni italiane, di derivazione francese), eppure anche la competenza su di essa è stata tolta da Dellai e alleati alla Regione. Nella cooperazione transfrontaliera euroregionale la Regione non c’è; ci sono le Province. Troppo comodo invocare ora per la Regione soluzioni anomale e inedite da inventare!
Ha fatto bene Flavio Mosconi a richiamare le responsabilità di Dellai e alleati nello svuotamento della Regione. Dellai dovrebbe avere il coraggio di riconoscere gli errori compiuti: nasconderli non gli riesce.

Referendum costituzionale e gli interessi schierati per il sì

Si moltiplicano in crescendo le prese di posizione a sostegno dell’approvazione dei cambiamenti della Costituzione che gli italiani saranno chiamati ad ottobre a valutare e l’Adige le riporta dedicando ampio spazio. Nel solo numero di martedì scorso due lunghi interventi di Ugo Rossi e di Carlo Ancona, il primo che illustra i grandi vantaggi delle nuove norme per il Trentino e il secondo di critica ai magistrati e ai giuristi che si sono pronunciati motivatamente per il no al referendum.

Resto confuso di fronte alle argomentazioni del Presidente della Giunta Provinciale, che ripete quello che ha già detto la ministra Boschi. Capisco, però, che un Presidente la cui permanenza in ruolo dipende dal partito che comanda a Roma e che, via Governo, ha imposto i cambiamenti, si sia acconciato a lodare, tacendo, invece, sulle gravi lesioni che le modificazioni costituzionali prevedono per la nostra autonomia. Rossi tace sul fatto che la subordinazione dell’entrata in vigore delle nuove norme, se approvate dal referendum, alla revisione degli Statuti delle regioni ad autonomia speciale, non toglie il dovere di adeguare tali Statuti alle nuove norme costituzionali, che sottraggono competenze cruciali (si pensi ad ambiente e a energia) a tutte le regioni, comprese quelle ad autonomia speciale. Rossi ancora tace sul fatto che le nuove norme prevedono la possibilità che il Governo invochi “l’interesse nazionale” per intervenire sulla legislazione di tutte le regioni (comprese quelle ad autonomia speciale), un arretramento che riporta al centralismo di un tempo, il cui superamento era stato giustamente presentato come un grosso passo avanti dell’autonomia. Rossi vanta il permanere del principio dell’ ”intesa” per le modifiche statutarie, ma come ben sa, il principio dell’intesa non dà potere di veto; le autonomie speciali dovranno cedere qualcosa nel campo delle loro competenze attuali, anche se c’è il principio dell’intesa, come anche il caso della Valdastico ha dimostrato. Resto confuso perché non riconosco nelle considerazioni di Rossi, del PATT, uno spirito autonomista chiaro e verace.

Ciò che in un primo momento mi ha sorpreso, ma poi, invece, ho capito che rientra nella piena normalità, è l’appoggio dichiarato alle nuove norme costituzionali da parte di Confindustria e di Coldiretti. Mi è bastato ricordare episodi di storia contemporanea bene analizzati, quando ero studente, dal prof. Giorgio Galli, docente a Trento. Di fronte alle agitazioni sociali del primo dopoguerra (a partire dal 1919), provocati anche dalla crisi economica conseguente alle devastazioni belliche, Mussolini e più in generale i leader fascisti trovarono il sostegno degli industriali e degli agrari. Le organizzazioni di imprenditori si curano più dei propri interessi che dello stato della democrazia. Non a caso la ministra Boschi, a Bolzano, di fronte all’Assemblea degli industriali con il suo presidente nazionale Boccia, ha vantato la rapidità decisionale e la stabilità di governo che le nuove norme garantirebbero. Conta l’efficienza, poco importa se per ottenerla si deve abbassare il livello di democraticità del sistema politico. Agli agrari dei primi anni ’20 si aggiungono ora i Coldiretti, che non sono più solo i “coltivatori diretti”, ma nella classe dirigente, sono titolari di imprese assai simili a quelle degli “agrari” e perciò con i medesimi interessi, cui si aggiungono promesse governative di tutela delle loro produzioni. Spero solo che la medesima posizione non assumano le organizzazioni degli artigiani e dei commercianti, forse meno condizionabili. Capacità di decisione rapida, mettendo in secondo piano il tasso di democraticità, è anche quello che invoca il giudice Carlo Ancona. Vorrei timidamente osservare come le nuove norme non impediscono agli eletti, anche se nominati, di cambiare opinione nel corso dei cinque anni di legislatura: possono costituire gruppi autonomi che non obbediscono più a chi li ha nominati. Il principio maggioritario nelle leggi elettorali vige dal 1994 e non è valso a scongiurare crisi di governo e interruzioni di legislatura. Non lo è valso neppure il potere di nomina dei parlamentari da parte dei vertici di partito; si pensi all’attuale legislatura: eletti preordinati nelle liste del medesimo partito che hanno poi costituito partiti e gruppi parlamentari autonomi. All’aver fatto diminuire il livello di democraticità nella scelta dei parlamentari (fino a infrangere la Costituzione) non ha corrisposto un maggior controllo di parlamentari da parte dei leader, alimentando trasformismi indegni. Come si fa a dire che con le nuove norme costituzionali certamente si avrà maggiore stabilità dei Governi?. Certo si saprà chi ha vinto la sera dello spoglio delle schede, ma non si saprà quanto a lungo il Governo durerà.
La macchina della propaganda per il sì è stata avviata con forze soverchianti governative ed economiche. Spero che i giornali e in generale i mass-media diano spazio anche a chi obietta!

(scritto il 7/6/2016)

Buona scuola e autonomia: equivoci

L’editoriale di Pierangelo Giovanetti direttore de l’Adige espone i motivi per i quali i provvedimenti presi dal Governo Renzi sulla scuola, in via di recepimento-adattamento da parte del Consiglio della Provincia Autonoma di Trento, sono non solo a parole, ma anche nei fatti, a suo parere, in direzione di una “buona scuola”, data la loro ispirazione a principi regolatori quali la valorizzazione del merito degli insegnanti e l’autonomia di chiamata (con limiti) degli insegnanti da parte del dirigente scolastico.
Ricordo che fu proprio la Federazione Provinciale delle Scuole Materne, già oltre trent’anni fa, per impulso e guida dell’allora Direttore prof. Gino Dalle Fratte e con l’aiuto di un gruppo di docenti universitari, a lanciare con la Conferenza Nazionale delle Autonomie, il principio dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, concepite come “scuole di comunità”. Dopo molti anni di impegno qualcosa venne fatto a livello nazionale e ora il Governo Renzi parrebbe aver voluto proseguire. Vi è in realtà una differenza con quella impostazione: l’autonomia scolastica era fondata sulla “comunità” (che vedeva il concorso di responsabili istituzionali, genitori-studenti, docenti), mentre nei provvedimenti di Renzi la responsabilità è del dirigente scolastico, secondo un modello “manageriale” anziché “comunitario” e la differenza non è da poco.
Avendo fatto parte dell’équipe che elaborava le proposte, non potrei che approvare i nuovi provvedimenti, se nel frattempo non avessi fatto l’esperienza dell’autonomia in ambito universitario, che, contrariamente alle attese, le stesse enunciate nell’editoriale, ha invece prodotto un netto degrado della qualità dell’insegnamento universitario. La ragione? La realtà è diversa da quella teorizzata. Le università hanno usato della loro aumentata autonomia per moltiplicare corsi di studio (che consentono di creare nuovi posti di insegnamento, a danno dei fondi di ricerca), disseminare sedi universitarie staccate, chiamare a insegnare non le persone più qualificate, ma quelle più legate da relazioni personali con coloro che avevano il potere di determinare l’esito dei concorsi (e poi di chiamata). E così l’autonomia ha aumentato il “localismo” e il “particolarismo” nella scelta dei docenti, non la qualità.
Si potrebbe dire che comunque l’autonomia e la libertà di iscrizione senza vincoli territoriali porterà a penalizzare le istituzioni scolastiche (i dirigenti) che hanno fatto cattivo uso dei loro poteri. Dall’esperienza si ricava che anche ciò è per gran parte smentito dalla realtà: di fatto genitori e studenti si iscrivono dove è più comodo, quasi sempre la scuola più vicina. Il valore legale del titolo di studio livella di fatto le differenze “qualitative” delle scuole. Inoltre solo i più ricchi possono andare in sedi lontane perché più prestigiose. Senza dire che accertare il livello qualitativo della formazione scolastica impartita è alquanto difficile. Basti vedere in ambito universitario quanti difetti e distorsioni hanno i sistemi messi a punto per giudicare docenti e università, spesso sensibili a criteri “formali” più che sostanziali.
Ho l’impressione che le obiezioni che Giovanetti imputa a un sindacalismo arretrato non siano destituite di fondamento, come la già compiuta esperienza universitaria ha dimostrato. Positivi gli obiettivi che egli enuncia per la qualità dell’insegnamento; assai meno certo che gli strumenti per realizzarli siano adeguati. Soffrono di inadeguata considerazione del fatto che la realtà è diversa da quella supposta.
Da ultimo una nota sulla qualifica di “immorale” all’ostruzionismo messo in atto dalle minoranze per “vendetta”. Per esperienza fatta, maggioranze e minoranze usano dei regolamenti per affermare i propri obiettivi; non ho mai sentito la qualifica di “moralità” o di “immoralità” al riguardo. La maggioranza ha strumenti che possono mortificare le minoranze e li usano disinvoltamente (si vedano i comportamenti del Governo Renzi a proposito di riforme costituzionali e di legge sulle unioni omosessuali); le minoranze ne hanno altri. Meglio sarebbe agire secondo il merito delle questioni, ma il “bon ton” va usato prima di tutto da chi ha dalla sua la maggioranza.

(scritto il 29/5/16)

Pombeni, VitaTrentina e referendum costituzionale

Su Vita Trentina del 29 maggio, rubrica Dialogo aperto, Paolo Pombeni propone sue riflessioni in merito ai cambiamenti della Costituzione che in ottobre verranno sottoposti a conferma o bocciatura da parte del popolo italiano tramite referendum. In altre prese di posizione pubblica Pombeni si è espresso a favore dei cambiamenti, sostanzialmente in nome del principio che la cosa più importante è che si formi un governo, poco importa se sostenuto dalla maggioranza dei cittadini.
Ciò che in particolare mi ha colpito dell’intervento di Pombeni su VT sono l’affermazione che i vescovi italiani abbiano raccomandato di votare a favore di tali cambiamenti e la scarsa considerazione delle obiezioni.
Non ho avuto notizia di pronunciamenti al riguardo dei vescovi italiani (rappresentati nella Conferenza Episcopale Italiana): forse Pombeni potrebbe citare il documento. Non mi pare che neppure nel più ampio magistero sociale della Chiesa vi sia una pronuncia secondo la quale la rappresentatività democratica delle istituzioni politiche deve cedere il passo alla facilità, alla rapidità, con la quale le autorità di governo possono assumere decisioni.
Sorprende anche il fatto che Pombeni riduca le obiezioni a “un mix di pregiudizi e di interessi al mantenimento dello status quo”, cui evidentemente è da lui ricondotto anche il pensiero di “stimati costituzionalisti”, che menziona in precedenza (salvo che non lo consideri irrilevante).
Pombeni dovrebbe sapere che sul fronte critico ci sono anche quelle parti di mondo politico che in modo esplicito e prevalente si ispirano al pensiero sociale cristiano, non certo riconducibili a “politici populisti, rancorosi”. Sono confluite nel “Comitato Popolare per il NO” presieduto da Giuseppe Gargani, parte della Federazione Popolare. Ma vi sono molti altri Comitati per il No, ai cui aderenti le qualificazioni di Pombeni sono del tutto inappropriate.
Forse sarebbe più produttivo per una scelta consapevole dei cittadini entrare non propagandisticamente nei contenuti dei tanti cambiamenti, ma offrire elementi di valutazione, da rapportare ai valori della democrazia rappresentativa e partecipativa. Gli slogan lanciati da Renzi sono per lo più semplificazioni propagandistiche. Non sono tanto alcuni degli obiettivi enunciati da Renzi a sollevare problema, ma la rispondenza delle modifiche a tali obiettivi senza compromettere valori fondamentali, quali la democraticità di un sistema politico e il principio di sussidiarietà, opposto al centralismo statalista che viene ripristinato da Renzi.
Penso che VT avrà occasione, nei mesi prossimi, di fornire tali elementi di valutazione ragionata, evitando di limitarsi a giudizi sommari, come purtroppo sulla questione Paolo Pombeni, ha fatto.

(scritto il 4/6/2016)

Trentino ed efficienza amministrativa: il caso di rinnovo della patente

di il 25 Agosto 2016 in servizi pubblici con Nessun commento

Tra i miei colleghi non trentini non era raro sentire apprezzamenti positivi per ‘efficienza amministrativa del Trentino e di solito veniva fatta risalire alla tradizione austro-ungarica. Penso sia importante investire per mantenere tale costume amministrativo, anche se l’italianizzazione del Trentino pare un processo ormai molto avanzato e di efficienza amministrativa non si parla.
Le porto un caso che ho vissuto per la seconda volta in due anni; un problema minimo tra i tanti, ma credo segnali una certa sciatteria amministrativa che sta guadagnando spazio. Ho una patente di guida BE, necessaria per trainare i rimorchi che mi sono utili per trasporto di animali e di fieno e il rinnovo deve essere fatto con visita medica presso una Commissione provinciale, previe altre visite mediche e prove (ciascuna necessitante apposito appuntamento e versamenti). Al cittadino non è dato di sapere quanto tempo prima della scadenza della patente è necessario avviare il processo di rinnovo; a costituire un’incognita è soprattutto la visita finale presso la Commissione medica provinciale. Quest’anno ho cominciato un paio di mesi prima della scadenza, con più anticipo rispetto al rinnovo precedente, ma ciò non è stato sufficiente. La visita è stata fissata un mese dopo la scadenza. Per ovviare al problema di non poter guidare con una patente scaduta, l’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari invita a recarsi presso gli uffici della Motorizzazione civile per fare una domanda di proroga, accompagnata da una marca da bollo di 16 euri. Serve una mattinata di coda, con una doppia attesa, una per fare la domanda e una per ottenere la dichiarazione di proroga.
Un’amministrazione efficiente dovrebbe prima di tutto stabilire con quanto anticipo serve avviare la pratica di rinnovo; in secondo luogo qualora l’APSS non riesca a rispettare tali tempi, dovrebbe essa curare d’ufficio la proroga della patente per il tempo necessario, senza oneri per il cittadino. Attualmente, invece, le difficoltà dell’APSS a fissare in tempi ragionevoli e prevedibili la conclusione del processo di rinnovo viene scaricata sul cittadino, procurando addirittura un’entrata aggiuntiva (la marca da bollo) alla casse pubbliche.
Si può sperare che qualcuno, in Provincia, si dedichi a rivedere le procedure amministrative, non solo per il caso sollevato, dimostrando che la tradizione di buona amministrazione in Trentino non è morta?

(scritto il 18/6/16)

Terzo Statuto per il TNAA: alti rischi

Alcune dichiarazioni del Presidente della Repubblica Mattarella contenute nella sua “lectio” a Pieve Tesino tenuta il 18 di agosto a celebrazione del ruolo avuto da Alcide Degasperi nella nascita della Repubblica Italiana e nei suoi primi anni sono state da molti interpretate come garanzia circa il futuro dell’autonomia speciale del Trentino-Alto Adige/Suedtirol. Nell’editoriale di domenica scorsa Pierangelo Giovanetti le definisce “la base solida e condivisa su cui costruire il nuovo Statuto”. Vi aggiunge che il Trentino-Alto Adige, grazie a quanto previsto dalle modifiche della Costituzione che saranno sottoposti a referendum, godrebbe di una duplice garanzia circa il rispetto della propria autonomia, la “clausola di salvaguardia” che sarebbe “una blindatura dell’Autonomia” e il principio dell’”intesa” circa i contenuti della revisione statutaria.
Nello stesso numero de l’Adige è dato rilievo, già dalla prima pagina, al problema delle “competenze da mettere in salvo”. Prima il sen. Panizza e da poco lo stesso Presidente della Provincia Rossi, intendono chiarire con il Governo quale sarà il destino delle competenze attuali della Provincia, dato che per le regioni ad autonomia ordinaria è prevista una netta riduzione della loro autonomia legislativa, ristatalizzando competenze prima regionali, anche se per lo più concorrenti. Evidentemente anche chi ha sostenuto il Governo e i cambiamenti della Costituzione nutre dei dubbi sulla portata della “clausola di salvaguardia”, che nei fatti ha un valore solo procedurale, senza indirizzi di contenuto diversi da quelli validi per le altre regioni, così come nutre dei dubbi sul fatto che la clausola dell’”intesa” consenta di evitare esiti non voluti, come invece succedeva nelle norme costituzionali approvate in Parlamento nel 2001 dal centro-destra e poi non approvate nel successivo referendum per lo schieramento del centro-sinistra sul no. Non solo le bozze di normative destinate a regolare l’intesa, ma la stessa esperienza di che cosa significhi “intesa” ad es. per le decisioni inerenti all’autostrada della Valdastico, fanno supporre che una maggioranza qualificata in Parlamento possa prevalere in caso di mancata intesa tra Governo e le nostre istituzioni autonome.
Non si può tacere, poi, sul fatto che le nuove modifiche costituzionali reintroducono la possibilità per i poteri centrali di emettere, anche annullando leggi regionali, norme proprie anche in campi di competenza regionale (provinciale) primaria, qualora a loro giudizio lo richieda “l’interesse nazionale”. Giovanetti evoca i frequenti conflitti di competenza presso la Corte Costituzionale dovuti al concorso di competenze statali e regionali sulla medesima materia; potrebbe anche ricordare i frequenti conflitti presso la Corte Costituzionale tra Sato e regioni (anche autonome) proprio per il modo nel quale i poteri statali (Governo e sua maggioranza parlamentare) usavano del concetto di “interesse nazionale”. Una grande conquista delle autonomie, la sottrazione delle loro potestà normative da parte del Governo grazie a dichiarazioni arbitrarie di ciò che richiede l’interesse nazionale, viene perduta.
Vi sono altre ragioni di fondo attinenti alla democraticità delle nostre istituzioni (basti citare l’istituzionalizzazione del primato del Governo nel processo legislativo, che il principio della divisione del poteri assegna invece al Parlamento, legittimando gli abusi già attualmente praticati), ma credo per le popolazioni del Trentino-Alto Adige già sufficienti le ragioni attinenti all’autonomia per restare sorpresi dalla sicurezza con la quale esponenti delle associazioni imprenditoriali, sindacali, giornalisti, membri di partiti autonomisti spingono a un voto SI’ al prossimo referendum. Capisco come lo facciano i senatori e i deputati regionali del PD, che in nome del sostegno al loro leader Renzi, si privano della libertà di dire sinceramente come stanno le cose. Non lo capisco per altri, se non per una sorta di compiacenza ideologica o di schieramento. Spero che PATT e SVP siano sempre degni degli ideali autonomisti.
Nel suo editoriale il Direttore Giovanetti giudica da superare i riferimenti alle “tutele inteernazionali”, per guadagnare sul campo della migliore amministrazione la legittimazione dell’autonomia speciale. Giusta la petizione di principio per il migliore governo (che fu anche di Degasperi), ma giudicare superati i richiami alle tutele internazionali mi sembra togliersi i ramponi per camminare sul ghiaccio. Quando il Governo Berlusconi, nel 1994, progettava riduzioni della nostra autonomia, solo gli interventi, sollecitati dalla SVP, di Austria e Germania frenarono e fermarono tali progetti. Stesso rischio a mio avviso presenta l’avvio di un processo che porti il Parlamento a decidere su un terzo Statuto. Molto più saggio tenersi i ramponi ben allacciati. Meglio pensare ad aggiustamenti dello Statuto attuale, che potrebbero essere minimi e non necessari se il referendum d’autunno bocciasse le modifiche costituzionali volute dal Governo. Il clima generale nei confronti delle specialità autonomiste (e dell’autonomia più in generale) è sfavorevole anche in Parlamento e nessuna parola della “lectio” di Mattarella si tradurrebbe in suo rifiuto di firmare una legge sullo Statuto sgradita agli autonomisti trentini. Una conquista fondamentale per le popolazioni trentine, ottenuta soprattutto grazie ad Alcide Degasperi, non può essere giocata al tavolo da poker della politica trentina e sudtirolese. Non è un gioco e al tavolo vi possono essere dei bari.

(scritto il 22/8/16)

difesa degli orsi e attacchi ai motociclisti

di il 25 Agosto 2016 in natura e ambiente con Nessun commento

Nella comunità trentina si registrano posizioni che fanno riflettere. L’ultima è quella dell’assessore provinciale Dallapiccola, del PATT, che esalta la moltiplicazione degli orsi in Trentino, segnale, a suo dire, di un territorio che ha riacquistato la sua integrità naturale. Ammesso che lupi, linci, orsi siano testimoni di un territorio tornato alla natura di un tempo, v’è da chiedersi a chi giovi tale ritorno, a chi tale ritorno sembri un progresso. Non certo agli allevatori, cui i risarcimenti non coprono il danno morale (e neppure tutto quello materiale), e suona strano che un assessore all’agricoltura sacrifichi gli interessi degli allevatori. Si suggerisce di usare recinzioni elettrificate (che non fermano nessun animale selvatico e a volte neppure quelli allevati, esperienza diretta pluriennale) e di far rientrare in stalla gli animali per la notte. Ma dove le stalle non ci sono? Capita di norma per il pascolo in alta montagna di pecore, capre, asini, che utilizzano pascoli marginali altrimenti destinati all’abbandono. Ma gli obiettivi delle politiche agricole e ambientali non mi pare inducano ad abbandonare i pascoli marginali! Contraddizione evidente! Conclusione: per orsi e lupi è tutelato l’interesse (estetico-ideologico) del cittadino per lo più urbano, di classe medio-alta, che ama sentirsi “progressista”, tendenzialmente di sinistra e che magari in montagna ci va poco anche per passare il suo tempo libero. Dallapiccola dice che il Trentino contribuisce a salvare delle specie minacciate di estinzione; ma dove? Vi sono spazi dove orsi e lupi prosperano!
Ma v’è un’altra “campagna” che rivela l’attenzione ai medesimi interessi: è quella contro l’uso delle moto, specie per escursioni estive sulle strade di montagna. Danno fastidio se si muovono a gruppi numerosi e ad alta velocità, ma non si fa analoga campagna per limitare l’uso dell’automobile che congestiona strade e autostrade. Il motociclista escursionista è generalmente di classe medio-bassa (i ricchi, le classi medio-alte, hanno altri passatempi e usano altri mezzi per spostarsi per gli svaghi) ed è percepito come “non progressista”. Ragioni per le quali non merita molta considerazione. La musica strapazzata in ambienti inadatti (luoghi aperti di montagna) è celebrata per le Dolomiti (e il relativo congestionamento di strade e parcheggi non conta). A contare sono gli interessi (anche solo ideologici o estetici) di chi la moto non la usa, perché usa l’automobile, ma gari di buona cilindrata, o usa l’aereo, sono gli interessi degli intellettuali, che si pongono una spanna sopra quei “buzzurri” delle moto, certo lontani dalla sensibilità “politica” di sinistra.
Scelte in apparenza “progressiste”, ambientaliste, di sinistra, in realtà mascherano la sensibilità tipica di classi medio-alte, cui lo sbranamento di animali allevati dicono poco, un trascurabile incidente di percorso, cui il togliere dalla circolazione le moto rappresenta solo un trascurabile costo esigito dal progresso e dalla tutela ambientale.
E’ questo il Trentino che la classe dirigente sta costruendo? Alla faccia degli allevatori “marginali” e di chi per girare usa la moto?

(scritto l’8/8/2016)

Diocesi di Trento: trasparenti le nomine degli insegnanti di religione?

di il 25 Agosto 2016 in etica pubblica, religione con Nessun commento

Non sono rari i richiami di autorità ecclesiali all’uso del potere in modo trasparente; similmente accade per evitare penalizzazioni alla donna a causa di maternità. Sono giusti ma si resta perplessi quando è la stessa amministrazione di una diocesi a contravvenire alle indicazioni etiche dell’autorità ecclesiale.
Avendo occasione di sentire ciò che accade nell’assegnazione dei posti di insegnanti di religione cattolica, mi pare che la logica delle raccomandazioni sia tutt’altro che bandita. Si è conclusa correttamente la vicenda del concorso, dopo varie incertezze e ricorsi alla magistratura. Vige, invece, una pratica talora poco trasparente nell’assegnazione di incarichi. Se si vuole che un’insegnante in posizione meno favorevole di graduatoria o in una graduatoria di ordine inferiore occupi un certo posto a scapito di una persona in posizione più favorevole, si trova il modo di farlo. Magari facendo predisporre un progetto didattico (mai prima preannunciato), che sottrae il posto alle graduatorie. Senza contare gli insegnanti che sono nominati a prescindere da graduatorie. Se un insegnante non piace, si trova il modo di fargli mutare scuola nominando un religioso o una religiosa in quel posto. Possibile che la Curia vescovile non sia esempio di trasparenza, pubblicando in anticipo l’elenco dei posti disponibili e seguendo l’ordine di graduatoria? Una cosa è poter dichiarare la non idoneità all’insegnamento della religione cattolica; un’altra agire in modo non trasparente, seguendo logiche di raccomandazione.
Cosa se ne può pensare se una dirigente scolastica da una valutazione critica di un’insegnante di religione solo perché ha fruito del congedo per maternità? Giusto qualificare l’insegnante come poco impegnata perché assente da scuola per maternità, e quindi senza la possibilità di organizzare iniziative extra-programma? E possibile che la Curia adduca poi tale valutazione a motivazione di scelte non secondo graduatoria?
Da parlamentare ho sperimentato come sia frequente a Roma l’uso della segnalazione, senza la quale le pratiche “dormono”; la buona amministrazione di stampo austro-ungarico in Trentino mi pareva meno soggetta a tale prassi. E’ troppo aspettarsi che anche nella diocesi di Trento sia migliore la pratica amministrativa curiale? Altrimenti i richiami alla correttezza di Papa Bergoglio e arcivescovi trentini sono minati nel loro significato per i comuni cristiani.

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