Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Morte ai selvatici immigrati clandestini (mufloni, cinghiali); immigrazione agevolata ai selvatici pericolosi (orsi e lupi): razionale|?

di il 2 Febbraio 2017 in natura e ambiente con Nessun commento

In questi giorni sui quotidiani locali si è fatto cenno a problemi in Trentino legati alla fauna selvatica. In un caso dei forestali hanno abbattuto un muflone (che tale poi si è rivelato non essere, ma un normale caprone) e in un altro veniva proposto di affidare ai cacciatori il compito di far fuori i cinghiali. Perché mufloni e cinghiali sono da eliminare? La ragione sta nel fatto che non sono parte della selvaggina autoctona tradizionale. Facilitati da “trafficanti clandestini” sono immigrati in Trentino.

Mi sono chiesto se anche orsi e lupi non siano “immigrati” da fuori Trentino, e quanto a danni, almeno per chi vive in montagna e di agricoltura-allevamento, non sono secondi agli immigrati clandestini. Eppure sono benedetti da chi ha il potere di vita o di morte sugli animali selvatici.

Perché due pesi e due misure? Il motivo starebbe nel fatto che lupi e orsi una volta c’erano in Trentino, mentre gli altri no, sono di “razza diversa” da quelle locali. A parte che non è facile dimostrare che mai nessun cinghiale o nessun muflone non abbia nei millenni trascorsi soggiornato in Trentino, mi sono chiesto quale sia il retroterra valoriale di tale discriminazione. Che sia un razzismo latente, che trova sfogo nel rapporto con gli animali, sì agli autoctoni (per via di specie, di razza, non di individuo) e no ai foresti? La globalizzazione, l’abolizione delle frontiere, la libera circolazione alla ricerca di un livello di vita più adeguato, vale solo per i primati homo sapiens? E invece la difesa dell’autoctonia vale solo per gli animali selvatici?

Non c’è qualcuno che dice che è l’uomo ad essere un ospite dell’ambiente, e non un padrone? Ma se è così, perché si consente che l’ospite possa decidere chi accettare? Poiché penso che l’uomo non sia ospite, ma buon amministratore per le esigenze innanzitutto umane, orsi e lupi, mufloni e cinghiali vanno amministrati in funzione dell’uomo, agricoltore-allevatore e cacciatore innanzitutto, e sinceramente penso che orsi e lupi siano più pericolosi e dannosi per gli altri animali e per l’uomo di mufloni e cinghiali.

Legge elettorale per la rappresentatività del Parlamento, dialogo tra forze politiche per la governabilità

Sul Trentino del 31 gennaio l’editoriale di Francesco Jori denuncia acre l’incapacità dell’attuale classe politica di dare all’Italia una legge elettorale adeguata a garantire rappresentatività e governabilità. Il motivo sarebbe nel fatto che, secondo le previsioni, non vi sarebbe né singolo partito, né coalizione, in grado di ottenere la maggioranza in Parlamento e quindi sarebbe necessario ricorrere, per avere una maggioranza e un governo, ad accordi e mediazioni al ribasso, intessuti di ricatti e veti incrociati. Aggiunge una critica ai sostenitori del no al recente referendum costituzionale, perché incapaci di proporre una legge elettorale adeguata. A parte quest’ultima considerazione, non pertinente in quanto dire di no a un cambiamento della Costituzione non implica anche dover elaborare una comune proposta di legge elettorale, è l’insieme delle argomentazioni a non essere convincente.

Prima osservazione: se una legge elettorale garantisce rappresentatività, la governabilità non può derivare da essa, bensì dalla capacità di una forza politica o di una coalizione di ottenere la maggioranza dei voti. Se si vuole garantire che comunque anche una minoranza, la più grande, possa avere la maggioranza degli eletti, viene mortificata la rappresentatività delle altre forze politiche.

Seconda osservazione: l’aver ottenuto la maggioranza degli eletti non garantisce la governabilità, essendo sempre possibile che una parte degli eletti cambi opinione e schieramento nel corso della legislatura. E’ accaduto sovente in questi ultimi anni. E non sempre si è trattato di trasformismo di singoli parlamentari, ma di cambiamenti politici motivati che hanno riguardato componenti rilevanti di un partito o di una coalizione.

Terza osservazione: più i sistemi elettorali premiano in termini di rappresentanza il partito o la coalizione che raggiunga una determinata soglia di voti (oppure anche l’elezione di candidati in collegi uninominali) maggiore è l’incentivo a costruire liste di partito o coalizioni inclusive di identità politiche diverse, con la conseguente maggiore fragilità sia delle maggioranze, sia delle formazioni di minoranza. L’incoraggiamento all’inclusione si traduce in accordi, spartizioni, ecc. quale che sia il sistema elettorale.

Ciò premesso, non v’è sistema elettorale che risolva il problema di come si arrivi a comporre la varietà di opinioni politiche presenti in un quadro di stabilità. Serve sempre un dialogo tra gruppi di opinione politica diversa, sia prima delle elezioni, sia dopo, sia durante la legislatura. Che il risultato sia una mediazione “alta” o meramente spartitoria di posti di governo, sottogoverno, in Parlamento, dipende dalla qualità delle formazioni politiche. Questa a sua volta dipende dal fondamento sul quale si basa la forza politica (motivazioni più o meno altruistiche dei politici, loro competenza tecnica e loro capacità di rapportarsi con le forze sociali, economiche e culturali, elaborazione ideologica riferita a valori, che dà stabilità di orientamento nelle scelte).

Per tutte queste ragioni, si può dire che un sistema elettorale proporzionale (magari con soglia minima per scoraggiare frammentazioni artificiose), con libertà totale di scelta tra i candidati serve a garantire meglio di altri la rappresentatività, mentre la governabilità si può raggiungere solo con accordi, prima o dopo le elezioni, tra forze politiche sulla base di programmi condivisi. E’ quanto accade in Germania, in Austria, in molti altri paesi ed è quanto è accaduto in Italia fino al 1994, dapprima con governi di derivazione CLN, poi centristi, poi di centro-sinistra, poi di “compromesso storico” e infine ancora di “pentapartito”. Cambiavano spesso i governi, ma non le maggioranze che davano stabilità al quadro politico, divenuto progressivamente più inclusivo, secondo un modello politico “comunitario” che valorizza l’apporto di tutti o quasi (come accade tuttora per es. regolarmente in Svizzera). Perché non mettere nel conto il fatto che compito della politica è anche quello di costruire convergenze su una comune piattaforma? Se il bipolarismo è finito in Italia, è inutile ricostruirlo artificialmente con meccanismi elettorali che mortificano la rappresentanza; meglio pensare a dialogo per costruire accordi, tenendo conto della rappresentatività di ciascuna forza politica.

Papa Bergoglio e giornata della pace: per essere buon cristiano solo la strategia della non violenza?

di il 17 Gennaio 2017 in pace, religione con Nessun commento

Su Vita Trentina del 18 dicembre u.s. sono riportati il testo del messaggio di Papa Bergoglio per la Giornata Mondiale per la Pace e sei commenti, tutti molto favorevoli, compreso quello di una esponente del mondo islamico. Il cuore del messaggio pontificio è centrato sull’efficacia della non violenza come mezzo per la pace. Si citano esempi storici quali quello di Gandhi e Martin Luther King. Solo tale mezzo, per il Papa, è pienamente coerente con l’insegnamento di Gesù di Nazareth, che nel discorso del Monte delle Beatitudini annuncia e vero e proprio “manuale” per tale strategia.

Il messaggio mi ha fatto pensare ai miei dieci anni trascorsi (anche con qualche responsabilità) nella Commissione Difesa del Senato, dove la preoccupazione maggiore era (e penso sia tuttora) quella di avere Forze Armate efficienti. Due gli obiettivi “politici” principali: garantire efficacia nella difesa dell’Italia, dell’Europa, dell’Occidente in caso di aggressioni e garantire efficacia nelle operazioni militari per la creazione, il rafforzamento e il mantenimento della pace in situazioni di grave conflitto. L’efficacia deriva in proporzioni diverse da caso a caso da azioni militari e azioni civili (pur se in un contesto militare) di promozione di condizioni di pace, con la garanzia della protezione militare. L’efficacia dell’azione militare contempla l’uso attuale o potenziale della violenza delle armi, esattamente l’opposto di quanto sostengono coloro che si ispirano alla strategia della non violenza.

Cosa deve pensare il cristiano che si impegna per una maggior efficacia della forza militare per un uso giusto della violenza? Ragionevole dire che non si può parlare di “guerra giusta”, neppure di difesa da aggressioni, quando si usano armi come quelle nucleari: il danno sarebbe maggiore del bene ottenuto difendendo una ragione giusta. Non sembra ragionevole ritenere che per ottenere la pace l’unica strategia veramente coerente con l’etica cristiana sia l’uso della non violenza. L’escludere l’uso della violenza per fermare aggressioni esterne o interne può, al contrario, incentivare le aggressioni stesse. Anziché un fattore di pace, diventa un fattore di disordine anarchico dove prevalgono i più forti, i più armati, coloro che hanno come fini il dominio di persone e popoli.

Se i cristiani dovessero abbracciare il metodo della non violenza per essere coerenti con la propria fede e la propria etica, quelli che operano nelle Forze Armate o quelli che, in circostanze di oppressione dittatoriale sanguinaria, usano armi violente per cambiare la situazione, dovrebbero sentirsi in colpa, incoerenti. Eppure la Chiesa ha prestato e presta assistenza a chi è impegnato nelle Forze Armate e non ho mai sentito cappellani o ordinari militari dire che l’unica scelta coerente per un cristiano è quella della non violenza.

Operare per la pace è giusto e necessario, e a questo serve il richiamo della Giornata Mondiale per la Pace. Dire che l’unico modo coerente con la fede e la morale cristiana è l’uso della strategia della non violenza mi pare sbagliato. C’è chi serve la pace e i diritti dell’uomo da militare, prevedendo se necessario l’uso delle armi (ossia usando una strategia della violenza a difesa dai violenti). Ancora una volta l’integralismo fa capolino: dedurre da norme di comportamento tra individui (il porgere l’altra guancia) norme etiche di comportamento tra società.

Veneti: minoranza nazionale da tutelare?

Il Trentino del 3 gennaio riporta un articolo, a mo’ di editoriale, del prof. Giovanni Poggeschi, docente universitario di Diritto pubblico. La sua tesi, enunciata anche nel titolo, che la legge regionale veneta n.28 del 13 dicembre scorso che intende applicare ai veneti la Convenzione quadro sulla tutela delle minoranze nazionali, approvata dal Consiglio d’Europa nel 1995 e ratificata dall’Italia nel 1997, altro non sia che uno “spot” propagandistico, essendo per lui sicuro che la Corte Costituzionale Italiana la boccerà, essendo competenza statale individuare le minoranze nazionali e non rientrando i veneti tra le minoranze “storiche” che l’Italia ha riconosciuto con legge 482 del 1999 quali titolari di tutela ai sensi di detta Convenzione, a differenza di friulani e sardi (che pure come i veneti sono politicamente organizzati in Regione, i friulani in compartecipazione con i giuliani).

Non intendo entrare nel merito delle valutazioni giuridiche del collega; assai probabile che l’ordinamento giuridico esistente in Italia escluda i veneti dalle minoranze nazionali alle quali si applica la Convenzione. Mi sembra invece soffrire di carenza di conoscenze storico-sociologiche la valutazione che Poggeschi dà delle rivendicazioni venete. Il veneto è stata lingua ufficiale di Stato molto a lungo, fin quando alla Repubblica della Serenissima non è stata posto fine dalle guerre napoleoniche. Ha alle spalle una cospicua letteratura e ragguardevoli opere teatrali, che ne hanno consolidato la forma scritta. E’ stata usata largamente da popolazioni, anche nei territori non più ora italiani, ma parte della Repubblica di Venezia. C’è stato un momento nel quale il veneto poteva diventare, in luogo del fiorentino, la lingua nazionale italiana. Difficile, quindi considerare il veneto alla stregua di uno dei tanti dialetti parlati in Italia, per quanto la distinzione tra lingua e dialetto sia più di ordine politico che linguistico, come confermano anche le storie recenti del serbo-croato, scomparso a favore di due idiomi prima non riconosciuti come “lingue”, il serbo e il croato, o quella delle lingue regionali del catalano e del valenziano, riconosciute come lingue autonome distinte dal castigliano solo a seguito dell’autonomia regionale in Spagna.

Se la distinzione lingua-dialetto è di tipo fondamentalmente politico, altrettanto si può dire delle distinzioni tra gruppi linguistico, etnico, nazionale. Un gruppo etnico diventa nazionale quando si pone l’obiettivo di avere una propria organizzazione politica statuale (anche se non ci riesce). Un gruppo linguistico può essere denominato come gruppo etnico se sviluppa la coscienza di una comunanza di origini, di storia; una nazione può essere composta da più gruppi etnici o linguistici. V’è una dinamica sociale di costruzione di un’identità di popolo e una di dissolvimento dell’identità. Quando un gruppo linguistico, etnico o nazionale è inserito come gruppo in posizione politica subordinata in organizzazioni politico-territoriali assume il carattere di “minoranza” in quelle organizzazioni. Da tale condizione di subordinazione l’aspirazione a una “tutela”.

I sardi, i friulani, i ladini dolomitici ( e anche i trentini) hanno espresso forme di organizzazione politica di gruppo (per lo più parziale) che hanno promosso la coscienza della specificità della propria identità culturale, base di successivi riconoscimenti di tutele (in modo indiretto i trentini). I veneti lo hanno fatto assai meno (si può ricordare la |Liga Veneta), e ciò che ora in Veneto sta accadendo a livello politico è semplicemente parte di un rafforzamento di tale processo di costruzione di identità specifica, recuperando i molti elementi culturali e di storia che ne sono fondamento. Può darsi che tale processo si consolidi come, invece, che si smorzi. Anche la nazione italiana è stata “costruita” da precisi processi messi in atto da élites. Solo il nazionalismo l’ha voluta egemone e in contrasto con le identità regionali. La Costituzione repubblicana ha riconosciuto autonomie regionali ordinarie e speciali (quella trentino-sudtirolese per ossequio a un accordo internazionale) e da alcuni anni anche la possibilità di estendere le “specialità”. Il processo per riconoscere carattere “nazionale” ai veneti potrà essere ancora lungo, ma il nazionalismo ancora presente in Italia che porta a non dare attuazione alle richieste di estendere l’autonomia a Veneto e Lombardia, ai sensi della Costituzione vigente, non fa che incoraggiare richieste ancor più forti, come quella del Veneto di invocare la tutela dovuta alle minoranze nazionali. Troppo riduttivo parlare di tutto ciò come di un semplice “spot”!

Prelati di CEI e Vaticano condannano senza pietà il domenicano Cavalcoli che parla di “castighi di Dio”: chi sbaglia?

di il 16 Dicembre 2016 in religione con Nessun commento

Il segretario della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Galantino e il sostituto della Segreteria di Stato del Vaticano mons.Becciu hanno usato parole durissime di condanna di dichiarazioni rese da padre Giovanni Cavalcoli, domenicano, in una trasmissione di Radio Maria, che ipotizzavano come il terremoto possa essere stato un “castigo di Dio” per l’introduzione in Italia del “matrimonio gay”. Sarebbero state per detti prelati dichiarazioni blasfeme e in netto contrasto con il messaggio di Dio misericordioso che Papa Bergoglio ha voluto per l’anno giubilare. Come se la misericordia di Dio eliminasse ogni possibilità di Suo castigo. Sodoma e Gomorra insegnano.

A parte la coerenza di chi in nome della misericordia aggredisce un confratello nella fede, che a loro avviso avrebbe molto “sbagliato”, fino ad essere accusato di bestemmia (ricorda tanto il sommo sacerdote nel processo a Gesù, che si stracciò le vesti), il caso solleva questioni rilevanti per la fede. Fino a che punto Dio interviene nella storia naturale e umana? La scienza ha fatto progressi importanti nell’offrire spiegazioni di fenomeni naturali, sociali e umani e la tecnologia ha progredito molto per controllarli. Ciò ha fatto retrocedere l’attendibilità di spiegazioni religiose, soprannaturali, legando religione a superstizione e mito. Si è così parlato di “demitizzazione” della religione, di sua “purificazione” quando non di un suo superamento in nome della ragione e della scienza.

Eppure le Sacre Scritture contengono molti esempi di interventi di Dio nella natura e nella storia, sia come castigo che come premio. Tra i castighi i più noti sono quelli del diluvio universale (dal quale per grazia divina si salvò Noè), le piaghe d’Egitto e l’annegamento dell’esercito del faraone nel Mar Rosso. Tra i premi la traversata del Mar Rosso all’asciutto da parte di Israele, le vittorie in guerre condotte dal popolo d’Israele e in epoca cristiana i molti miracoli, qualche vittoria militare a difesa della cristianità e i voti comunitari diffusi per scampati pericoli di pestilenze, epidemie, guerre, ecc.. Ma non si tratta solo di fatti del passato “pre-scientifico”; ancor oggi vengono celebrate le rogazioni per ottenere la pioggia in caso di prolungata siccità, si fa pregare perché non scoppi una guerra (e non solo nelle tradizionali litanie), si riconoscono miracoli, prova di santità. Nel Vangelo si riferisce di parole di Gesù che avrebbe promesso che “qualunque cosa chiederete al Padre nel mio nome Egli ve la darà”.

Convivono nella Chiesa moderna visioni “laiche” della natura, della società, dell’uomo, riservando al religioso solo la risposta di fede al senso ultimo della vita e del mondo, e visioni “provvidenziali” che vedono l’azione di Dio elemento essenziale della realtà e delle sue vicende. Preghiere e riti (specie i sacramenti) presuppongono la possibilità – certezza dell’intervento diretto di Dio quanto meno nella vita personale e nella società (la Chiesa), mentre per altro verso la secolarizzazione (che ha percorso anche i cristiani) spinge la rilevanza di Dio ai confini dell’esistenza, ritenendo arretratezza ogni credenza di un suo intervento diretto nella natura, nella società e nell’uomo. Da una parte la Chiesa dà un giudizio di autenticità sulle apparizioni di Fatima e sui suoi messaggi su guerra e conversione della Russia, valorizza esperienze mistiche di dialogo intenso con Dio, parla di miracoli attendibili e dall’altro si scandalizza se un prete-teologo interpreta come castigo divino un terremoto. Non sarebbe meglio mantenere l’instabile composizione tra ragione e fede che caratterizza l’esperienza dei cristiani, senza condanne per chi ne accentua una o l’altra? In fondo il dubbio è più “laico” della condanna razionalista e risponde meglio alla condizione che ci è dato di vivere.

Con la rivelazione del Padre da parte di Cristo è blasfemo e pagano parlare di “castighi di Dio”?

di il 16 Dicembre 2016 in religione con Nessun commento

su Vita Trentina del 20 novembre, nella rubrica Dialogo aperto suor Chiara Curzel e Lucia Girardi riprendono la questione sollevata dal padre domenicano a Radio Maria sui castighi di Dio, criticando nella sostanza, senza citarli, quanti (tra i quali io stesso) avevano espresso perplessità su dichiarazioni di prelati vaticani e della CEI di netta condanna del domenicano per blasfemia o per paganesimo.

Per suor Chiara Curzel non ci si può fermarse all’Antico Testamento, alla sua concezione di Dio, in quanto solo con Cristo la rivelazione di chi è Dio è compiuta; inoltre non si può fare affidamento sulla “lettera” di quanto è scritto nella Bibbia, perché è la Tradizione della Chiesa a dare la giusta interpretazione. Le argomentazioni di Lucia Girardi, pur con approccio diverso, meno dottrinale, sono le medesime.

La posizione di suor Chiara Curzel è certamente ortodossa e, per un cristiano, convincente. Lascia però aperti alcuni punti:
1. ammesso che Dio sia solo “misericordia” e non infligga castighi collettivi, può la Chiesa non essere misericordiosa con chi ricorda il Dio castigatore? Che misericordia hanno usato i monsignori che hanno accusato di blasfemia e di paganesimo il domenicano? E si tratta di monsignori “importanti” nella Chiesa.
2. Se la rivelazione si è compiuta con Cristo, è certo che Cristo non abbia mai parlato di castighi divini? Non mi pare. Ha parlato di amore e di misericordia, ma non solo. Citare solo le “parole” di misericordia non cade proprio nell’errore di “isolare parole” che viene imputato a chi ricorda che Dio è giudice e può castigare?
3. Se le “parole” della Bibbia vanno interpretate non letteralmente, ma in base alla Tradizione della Chiesa, possiamo dire che la Tradizione ha dato sempre la medesima interpretazione delle “parole”? Non mi pare. Si pensi a come la Chiesa Cattolica ha giudicato le posizioni di Lutero: dalla condanna dottrinale alla celebrazione per il contributo dato alla riforma della Chiesa. Possiamo dire che l’interpretazione più vera data dalla Chiesa (popolo e magistero) sia necessariamente l’ultima? Mi sembra rischioso sostenerlo: apre le porte a visioni evoluzioniste, mentre la Tradizione ha un patrimonio di verità (da trasmettere) che ha già ricevuto intero da Gesù di Nazareth e dai suoi apostoli. La Rivelazione si è compiuta.
I
n definitiva mi sembra che sia preferibile per chi ricopre posizioni di autorità nella Chiesa essere più magnanimo nei confronti di chi esprime sensibilità diverse, convinzioni diverse in materie non definite dal Credo degli Apostoli, dai pronunciamenti dogmatici e di morale ex-catedra del Papa e dei Concili ecumenici in unione col Papa. Quando erano Pontefici Papa Voityla e Papa Ratzinger non erano pochi coloro che rivendicavano libertà di valutazione (da cristiani “adulti”); ora molti di essi negano tale libertà rispetto alle dichiarazioni di Papa Bergoglio (salvo ignorarle quando dice qualcosa che non aggrada, come in merito all’ideologia “gender”). Doppia morale?

Avvenire e Vita Trentina su referendum costituzionale: mancano riferimenti a dottrina sociale cristiana

Lettera al Direttore di Vita Trentina Diego Andreatta.
Quando uscirà il prossimo numero di Vita Trentina l’esito del referendum costituzionale sarà già stato acquisito e commentato. Il suo editoriale sul numero del 4 dicembre, così come la linea in merito seguita da Avvenire, mi ha sollecitato una riflessione. Nonostante che l’Adige del 2 dicembre legga nel suo editoriale un implicito invito a votare SI’ (sinceramente non l’ho colto, neppure nei riferimenti agli effetti del voto sul contesto europeo), l’atteggiamento suo e di Avvenire, come il richiamo del Segretario della Conferenza Episcopale Italiana a badare con razionalità ai contenuti, mi sono apparsi “neutrali”, al di là delle convinzioni personali. Ciò che mi ha sorpreso è, però, che nella valutazione dei contenuti della legge costituzionale non si sia fatto riferimento ai principi, ai valori, proclamati dalla dottrina sociale della Chiesa, anche quella degli anni dopo il Concilio Vaticano II. A mio avviso due principi guida del pensiero sociale cristiano erano chiaramente rilevanti nelle valutazioni da dare, quello di una democrazia partecipativa e quello della sussidiarietà verticale. Non che manchino, nel suo riferire delle diverse posizioni, a favore o contro, citazioni della democrazia partecipativa e (indirettamente, parlando di centralismo e regioni) del principio di sussidiarietà, ma è mancato l’esplicito invito ai cristiani di valutare i contenuti della legge costituzionale a partire dalla coerenza con la dottrina sociale cristiana. Il togliere competenze alle regioni per concentrarle nello Stato, il potere dello Stato di intervenire sulle residue competenze regionali, semplicemente “dichiarando” l’interesse nazionale, sono misure coerenti con il principio di sussidiarietà? A me non pare, ma doveva essere questo il punto di partenza per una valutazione da parte dei cristiani. E’ sufficiente aver creato un Senato con rappresentanze di Consigli regionali e Comuni per far dire che nel complesso il bilancio in termini di rispetto della sussidiarietà è positivo, se si tiene conto delle competenze assai ridotte affidate al Senato e poco connesse con i problemi da affrontare in sede regionale?

Simile il problema per quanto concerne il principio di democrazia partecipativa. Di fronte alla crisi della funzione della rappresentanza parlamentare, sempre più soggiogata alle decisioni dell’Esecutivo, va in direzione del valorizzare la democrazia partecipativa l’aumentare il potere del Governo di dettare l’ordine del giorno del Parlamento, non più solo con decreti legge per i quali non esistono i presupposti, non più solo con l’uso di leggi delegate estremamente generiche, non più solo con l’uso di maxi-emendamenti sui quali porre la fiducia per stroncare ogni possibilità dei parlamentari di vedere discussi degli emendamenti, ma anche con il potere di dettare l’agenda parlamentare semplicemente dichiarando “importante” una legge? A me non pare. E’ sufficiente a compensare ciò la possibilità di indire forme consultive di referendum e garantire ai disegni di legge di iniziativa popolare di essere discusse (pur rendendo più difficile presentarli, essendo necessario il triplo di firme? A me pare di no. Anche ora le opposizioni hanno il diritto (per Regolamento parlamentare) di veder discussi propri disegni di legge, ma il tutto si traduce nel metterli all’ordine del giorno per poi rapidamente bocciarli. Sono parziale nel mio giudizio? Se ne discuta, ma a partire dal valore della democrazia partecipativa enunciato e fatto proprio dalla dottrina sociale cristiana. Poi in quanto laici cristiani ciascuno agirà come richiede giusto in coscienza, ma questa va “illuminata”, quanto meno richiamando i principi di etica sociale cristiana.

E’ bene che le diocesi si impegnino in corsi di dottrina sociale, è bene che tra i compiti della Consulta dei laici vi sia anche quello di valutare situazioni e iniziative politiche alla luce della dottrina sociale cristiana, ma se, di fronte a una sfida che divide, anche i cristiani, non si lavora per cercare valutazioni coerenti con il pensiero sociale cristiano, preferendo soluzioni che richiamano il comportamento di Ponzio Pilato, per evitare di scontentare una parte o l’altra, la portata dei corsi e delle poche riunioni della Consulta rimane sterile.

Voto NO al referendum costituzionale: vere le conseguenze negative per il Trentino?

L’editoriale di Pierangelo Giovanetti su l’Adige del 7 dicembre rappresenta assai bene la reazione della maggior parte dei leader di opinione trentini alla vittoria del NO al recente referendum costituzionale: rileva il NO ma rileva soprattutto la diversità di voto fra Trentino e Alto Adige. Le conseguenze che se ne traggono non sono a mio avviso convincenti.

La prima conseguenza che Giovanetti segnala ai lettori è la dimostrazione che ai trentini interessi meno che ai sudtirolesi (di lingua tedesca) la difesa dell’autonomia, assumendo come dato incontrovertibile che la nuova legge costituzionale fosse una difesa “degli interessi territoriali” dell’identità e dell’autonomia. Non so da dove tragga questa certezza. Il rimando per le regioni ad autonomia speciale a una revisione statutaria fatta “di intesa” fra Stato e Regioni non certifica certo che il senso della “revisione” sia inteso in direzione di potenziamento dell’autonomia, quando le modifiche costituzionali per le altre regioni andava proprio in direzione opposta. Se la legge avesse voluto non applicare alle regioni ad autonomia speciale le nuove norme, lo avrebbe potuto dire, ma non lo ha fatto. Di fronte a una proposta governativa dell’obbligo di “adeguare” gli Statuti, i parlamentari delle regioni ad autonomia speciale avevano ottenuto l’obbligo di “revisione”, “di intesa”, ma senza che la procedura dell’intesa comporti per le autonomie speciali diritto di veto in caso di disaccordo. Il prezzo di tale concessione procedurale è stato il sostegno alla legge anche in fase di referendum. I sudtirolesi hanno obbedito alla SVP, i trentini non hanno fatto altrettanto nella stessa misura nei confronti del PD e del PATT. Questione di “disciplina”, non di attaccamento all’autonomia. E’ la sua seconda considerazione, condivisibile e confermata dai fatti e non solo in questa occasione.

Ma a questa il Direttore de l’Adige aggiunge quella che la “diversità trentina” rispetto al resto del Nord Italia sarebbe sparita. In realtà è da tempo che in indagini condotte su identità e orientamenti di valore dei trentini, i cui risultati sono pubblicati, viene constatata la progressiva “italianizzazione” del Trentino. A una debole specificità di identità ha fatto finora da correttivo, da parziale compensazione, un forte sentimento di appartenenza provinciale-regionale. L’anomalia “trentina” da Giovanetti evocata solo in termini di voto politico (citando la diversità di scelte elettorali in epoca di “berlusconismo trionfante” – ma nel 1994 non è andata così) è semplicemente legata alla scelta della SVP , dopo la crisi della DC, di allearsi con la sinistra, trascinando (con qualche resistenza) anche il PATT, e ciò in rapporto ai difficili rapporti in Alto Adige con partiti come AN e FI. Si può aggiungere una temporanea sopravvivenza del sistema DC più forte che altrove (vedasi Dellai), che ha più a che fare con la capacità di garantire rendita politica che con una “diversità” culturale trentina.

Senza un progetto identitario specifico, ebbi modo di scrivere a conclusione di tali indagini, rischia di essere compromesso a lungo termine anche il forte sentimento di appartenenza e di autonomia, ma non mi pare che si possa dire che il risultato del voto referendario dimostri che tale processo sia già compiuto.

E vengo alla terza considerazione di Giovanetti: la difformità di comportamento elettorale renderebbe chiara la diversità di situazione fra Trentino e Alto Adige. Sinceramente non credo che a Roma o a Milano non si siano finora accorti di tale diversità: basta osservare i risultati di tutte le elezioni politiche o basta ricordare il conflitto degli anni Sessanta. Che il Trentino sia parte della nazione italiana e che i sudtirolesi di lingua tedesca siano parte della nazione austriaca ce lo ricordano uomini come Degasperi e Piccoli, trentini leader nella nazione italiana; ce lo ricordano uomini come Magnago, la storica avversione all’unità regionale e lo stesso Statuto della SVP, che rivendica ancora il diritto all’autodeterminazione. Non si possono dissimulare le diversità con un desiderato voto simile a un referendum. Serve, invece, mantenere vitale la Regione, legame istituzionale tra “diversi” a seguito del patto Degasperi Gruber. Non è sostituibile da nessuna “euregio”, data la vigente configurazione dei poteri, delle sovranità.
Per questo penso che se l’esito del referendum è il “de profundis” della Consulta e della Convenzione per arrivare a un “Terzo Statuto” è solo una “benedizione”. Di fronte alla prospettiva di indebolire ancora la Regione, configurandola solo come organismo di collaborazione tra le due Province, meglio mantenere la Regione com’è, cessando lo sconcio della sua spartizione di fatto di guida politica (l’alternanza dei Presidenti delle Province) e di risorse. Si celebra l’apprezzamento di Kompatscher per la collaborazione fra le due Province, ma esso è come il bacio della morte: tale collaborazione non necessita di un Regione vitale; va bene, ma da sola rappresenta la morte della Regione, che resta, se resta, simulacro solo formale (l’unicità formale dello Statuto).

Da ultimo la considerazione di Giovanetti sulle “colpe” dei partiti che ufficialmente erano per il SI, ma con parti dissenzienti. Può darsi che il PD non sia il “baricentro della politica e del sistema autonomistico insieme alla SVP” (il ruolo che aveva un tempo la DC), ma questo non certo perché una sua parte ha testimoniato un attaccamento alla Costituzione, a una concezione partecipativa della democrazia, a una Repubblica che valorizza le autonomie (tutte, non solo quelle del proprio orto). Questa parte dissenziente (come quella entro il PATT) non ha sacrificato i principi, i valori della Costituzione, alle convenienze di potere. E probabilmente il suo servizio alla comunità è stato migliore!

catasto stufe a legna:burocrazia inutile a danno popolazioni montane

di il 16 Dicembre 2016 in autonomia, burocrazia, COMMERCIO con Nessun commento

Nei giorni scorsi mi giunge una lettera della ditta che mi ha installato la caldaia a gas per il riscaldamento e l’acqua calda, invitandomi a prenotare il controllo per l’annuale manutenzione, avvisando che si sarebbe dovuto fare un nuovo libretto. Durante la telefonata di mia moglie per prenotare il controllo, l’esperto della ditta comunica che devono essere censiti in un apposito catasto anche tutti gli apparecchi che usano legna o altri combustibili e che ciò avrebbe comportato un’ulteriore spesa da rapportare al numero di apparecchi. Sorpreso per ciò, controllo via internet la normativa statale e provinciale, la quale obbliga al censimento solo gli apparecchi fissi (purché di potenza nominale complessiva superiore a 5 kw). La ditta, ricontattata, conferma che stando alle istruzioni avute in appositi corsi provinciali, devono essere censiti tutti gli apparecchi, compresi quelli mobili (cucine economiche, stufe), e indipendentemente dalla potenza. Di fronte alle mie rimostranze la ditta, evocando rischi di multe salatissime di migliaia di euri nel caso non procedesse come indicato dai tecnici provinciali, si è rifiutata di procedere al controllo e alla manutenzione della mia caldaia a gas da essa installata. Fin qui la breve cronaca di un episodio che probabilmente riguarda i molti che usano anche o solo legna da ardere.

Credo necessario un chiarimento da parte dell’Assessore provinciale competente e dell’Agenzia provinciale per le risorse idriche e l’energia. Se fosse vero che, contrariamente alle norme scritte, la Provincia abbia istruito i manutentori a registrare nell’apposito catasto (e con oneri a carico del cittadino) anche le stufe e le cucine economiche (“el fogolar” a Trento e lo “spolèr” a Primiero) nonché i caminetti (anche quelli che svolgono ormai solo una funzione estetica di arredamento), siamo all’assurdo. Ad es. a Trento ho una stufetta molto piccola, su un corridoio, che uso forse due – tre giorni all’anno, in caso di forte freddo: dovrebbe essere accatastata, dovrei pagare il corrispettivo, e se il prossimo anno la elimino o la cambio, dovrei procedere alle variazioni del catasto. Idem per due stufe a Primiero che uso pochissimi giorni all’anno, se le uso.

La normativa nazionale (che dice di recepire normative europee – povera Europa!) prevede la possibilità di adattamenti da parte delle regioni e delle province autonome: possibile che in una provincia montana autonoma non si faccia buon uso di tale autonomia? Sarebbe interessante sapere se gli estensori delle norme provinciali vivono nei paesi del Trentino o in città, dove l’uso della legna da ardere è divenuto raro. Per chi vive in montagna, dopo l’orso e il lupo, anche la penalizzazione di chi usa stufe a legna, magari, come nel mio caso, per integrare l’impianto a gas con risparmio di energie non rinnovabili. Mi sorge il dubbio che si ripeta quanto ho visto fare a Roma: per calmare i meccanici che, con la rottamazione delle vecchie automobili, vedevano calare il lavoro, hanno reso più frequenti le revisioni. Forse che in Trentino si vuole dare più lavoro ai manutentori? Che senso ha poi prevedere obblighi di accatastamento e controllo anche per gli impianti allacciati alla rete di teleriscaldamento (come a Primiero?) Rilevo poi un’altra incongruenza della normativa nazionale non rimediata dall’autonomia provinciale: la manutenzione si deve fare secondo le istruzioni del fabbricante la caldaia (nel mio caso ogni anno), mentre il controllo di efficienza energetica, per impianti come il mio, ogni quattro anni. Ma se faccio manutenzione, prescrive la legge, sono obbligato a fare anche il controllo di efficienza energetica (quindi ogni anno!). Che senso ha? Come infine calcolare la potenza nominale di una stufa a legna che ho da decenni? Devo chiamare un tecnico per fare i calcoli e le prove di efficienza? Siamo all’assurdo della burocrazia, europea, italiana e trentina. I trentini si meritano altro!

Tipologia degli elettori di fronte al referendum costituzionale: note critiche

sul Trentino del 24 ottobre Paolo Mantovan propone una tipologia delle posizioni assunte sul prossimo referendum sulle modifiche costituzionali. Il noto metodologo della ricerca sociale Paul Lazarsfeld suggerirebbe di risalire dalla tipologia allo “spazio di attributi” del quale la tipologia costituisce una “riduzione” (che nel caso in esame verrebbe qualificata come “pragmatica”, ossia basata su una valutazione della ricorrenza dei vari tipi). Vorrei seguire il suggerimento di Lazarsfeld, ripercorrendo la tipologia di Mantovan. Il tipo “modernisti” deriva da una polarità della dimensione “cambiamento come progresso – cambiamento non equivale a progresso”. Il tipo “puristi” come descritto ha una doppia dimensione: “sacralità – non sacralità della Costituzione” e “legittimazione – non legittimazione dell’attuale maggioranza parlamentare”. Il tipo “schifati” segnala la dimensione “il meglio è nemico del bene – non si deve in alcun caso votare a favore di modifiche costituzionali fatte male”. Il tipo “non succede nulla” deriva dalla dimensione “rilevanza o meno del voto referendario sulla situazione politica italiana”. Il tipo “agnostici” segnala la dimensione “rilevanza o meno del voto referendario sulla situazione economica”. Il tipo “regionalisti” deriva dalla dimensione “rilevanza o meno del voto referendario sulle autonomie regionali anche speciali”. Il tipo “soldati” segnala la dimensione “dipendenza o meno del voto referendario dall’appartenenza di partito o di schieramento politico”. Infine l’ultimo tipo “i convinti in buona fede” deriva dalla dimensione “dipendenza o meno del voto referendario dalla valutazione sui suoi contenuti intrinseci”.

Lo spazio di attributi deriva dalla combinazione di tutte le posizioni relative alle nove dimensioni utilizzate da Mantovan (almeno per come sono riuscito a identificarle): uno spazio assai complesso, a nove dimensioni, ciascuna delle quali misurata come minimo in modo dicotomico. Non è detto che ciascuna delle nove dimensioni sia indipendente dalle altre e Lazarsfeld, come ogni sociologo attrezzato nelle tecniche di elaborazione, metterebbe in campo analisi multivariate per capire quante siano le dimensioni tra loro indipendenti e quali, invece, siano tra loro strettamente covarianti. Ma anche senza tali analisi, non risulta difficile pensare che buona parte delle nove dimensioni segnali atteggiamenti non sovrapponibili neppure solo empiricamente. Si può pensare che giudizio su sacralità o meno della Costituzione si associ alla dimensione relativa al legame tra cambiamento e progresso e forse anche al giudizio sulla legittimazione dell’attuale Parlamento, oppure che la valutazione degli effetti politici del voto referendario si associ a quella degli effetti economici, o ancora che il voto per appartenenza politica sia connesso al voto non dipendente dai contenuti, ma altre correlazioni strette sembrano difficili. Permane sempre uno spazio di attributi a cinque dimensioni. Misurate dicotomicamente, se due dimensioni, incrociate individuano quattro tipi possibili, se sono tre essi diventano otto, se sono quattro diventano sedici e se sono cinque diventano trentadue, derivanti dalla diverse combinazioni, ciascuna senza significative sovrapposizioni. I possibili tipi individuabili in base alle dimensioni usate da Mantovan sono come minimo trentadue.

Mantovan ne cita otto, ciascuna corrispondente a una polarità di ciascuna dimensione, considerata però disgiuntamente dalle altre. La sua capacità giornalistica sicuramente gli avrà consentito di individuare gli otto tipi principali, ma anche la sua abilità si sarebbe giovata dal ricorso a logiche combinatorie, che appaiono assai probabili nella realtà, almeno sulla base di quanto si legge, si sente e si vede nella stampa e nei mezzi radio-televisivi. Ciò consentirebbe, tra l’altro, di rappresentare meglio la realtà, con divisioni meno nette di come rappresentate da Mantovan. I vari motivi delle propensioni o delle scelte per il Si o per il No possono tra loro combinarsi e incrociarsi, anche per la varietà eterogenea dei cambiamenti costituzionali da valutare.

Quanto scritto non suoni a critica dell’analisi di Mantovan, in ogni caso utile, ma come sollecito a ulteriori approfondimenti.

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