Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Studenti stressati: come mai?

di il 29 Marzo 2024 in cultura, scuola, università con Nessun commento

il T quotidiano del 27 marzo dedica ampio spazio alle valutazioni sulla circolare che l’assessora provinciale all’istruzione, Francesca Gerosa, ha inviato alle scuole consigliando i professori a non dare compiti a casa per le vacanze pasquali. Alcuni giorni fa veniva presentato il risultato di un’indagine sulla quota di studenti che soffre di stress, una quota straodinariamente elevata. Il rappresentante degli studenti valorizza la preoccupazione di chi guida la scuola per il loro “benessere”. Giusto difendere l’autonomia scolastica, che non è solo in capo ai docenti, ma a tutte le componenti della scuola, ma altrettanto giusto che chi ha responsabilità politico-amministrative sulla scuola formuli osservazioni e stimoli riflessioni, senza peraltro la pretesa di avere poteri di comando. Ma non è per questo che disturbo, ma per esprimere uno stato d’animo rispetto alla dichiarata fragilità psichica degli studenti nell’affrontare il futuro. Come mai la scuola è vissuta con stress? Quando ero giovane studente la scuola era la strada per realizzare la propria crescita culturale e professionale. Non a molti era concesso di percorrere questa strada fino ai più alti livelli di istruzione. La Costituzione lo garantisce anche a chi era privo di risorse ma era bravo. Essere bravi a scuola era un obiettivo. Ricordo che alle elementari per essere più bravo degli altri non mancava chi, come me, studiava in anticipo le pagine del sussidiario. C’erano momenti di stress (che per me si manifestava con conati di vomito anche senza aver fatto colazione), ma sono stati rari: ricordo l’esame di matematica all’Università, primo anno, dal cui esito dipendenva la possibilità di ottenere il presalario e quindi poter frequentare l’Università. Uno stress simile lo sperimentai quando dovevo decidere se indebitarmi molto per comprare casa o quando a Kampala il gruppo di ricercatori che guidavo venne assaltato da militari in un colpo di stato. Stress forti e superati, ma per tutto il resto della vita, anche da giovani, la vita era vista non come stress, ma come sfida da affrontare, come impegno. Che razza di benessere degli studenti è quello che che riduce gli impegni, gli sforzi, i sacrifici per avere più tempo libero, per poter passeggiare assaporando cose che piacciono? Ricordo che quando ero giovane non potevo fare i compiti per le vacanze perché i miei non avevano i soldi per comperarmi il “libro per le vacanze”, qualche rara volta regalato dal maestro che lo riceveva in omaggio dall’editore. Solo i benestanti potevano permetterselo. Certo ci vuole equilibrio, certo occorre dare spazio anche ad attività educative extrascolastiche; certo serve lasciare tempo anche per attività sportive, certo serve dare spazio per la vita di famiglia, ma ripensiamo sulle ragioni per le quali scolari e studenti vivono in stress, anziché con gioia e speranza il loro tempo.

Inviato al quotidiano T e finora non pubblicato

 

Propaganda gender con un seminario all’Università di Trento


Lettera al quotidiano il T , non pubblicata

Egregio Direttore,

il T del 24 novembre dedica l’intera pagina “Cultura” al convegno Gender R-Evolutions che il Centro studi interdisciplinari di genere dell’Università di Trento organizza per il 25 e il 26 novembre. Al di là della notizia, un grande rilievo è dato a un’intervista a una relatrice, Sara Garbagnoli, che propone come obiettivo da perseguire la “denaturalizzazione di sesso e razza”. Che il concetto di razza sia una semplificazione lo si scrive da tempo (anche se caratteri come colore della pelle, forma di capelli e peluria, statura media, odore del sudore e altro ancora siano caratteri naturali distribuiti per via ereditaria tra le popolazioni umane, tutt’altro che non naturali). Per questo l’intervista è centrata sulla denaturalizzazione del sesso. Il giornalista Mattia Pelli non evita le obiezioni alla tesi dell’intervistata, che “è il genere a creare il sesso biologico”. Il sesso di una persona per la relatrice, anche nella sua dimensione biologica, è una costruzione sociale. E chi continua a pensare che uomo e donna siano diversi per natura è ritenuto mettere a pericolo la democrazia, da contrastare con un “neo-antifascismo”. Credo che non ci sia modo più efficace di mettere in difficoltà l’Università, il cui Rettore, all’inaugurazione dell’anno accademico, ha chiesto più sostegno economico da parte della Provincia Autonoma di Trento, che il dover constatare come questa, attraverso un suo Centro Studi, finanzi convegni nei quali vengono sostenute tesi non solo insostenibili con il metodo del’osservazione della realtà, ma orientate a fare propaganda per movimenti politici che non si possono più nemmeno definire di femminismo estremo. La ricerca è libera, può essere indirizzata con l’uso opportuno del finanziamento pubblico e privato, ma non è libertà di ricerca usare università e centri di ricerca finanziati con denaro pubblico per obiettivi politici, anche distorcendo, come nel caso in esame, il semplice buon senso. Dedicare la pagina Cultura a posizioni del genere ha il merito di rendere evidente il degrado di porzioni delle strutture universitarie, ma mi viene il dubbio che il farlo possa invece favorirne la diffusione. Sono impertinente se le chiedo quale tra questi due obiettivi è quello perseguito dal quotidiano che dirige?


Comunità trentina per Università di Trento: disinteresse?

di il 21 Febbraio 2021 in comunità, università con Nessun commento

Le prossime elezioni del Rettore dell’Università di Trento hanno dato spunto per interessanti riflessioni pubblicate da l’Adige, ultima quella del prof. Giovanni Pascuzzi. Principale suo rilievo la scarsa attenzione della comunità trentina per ciò che accade all’università. Uno dei motivi, secondo lui, la “chiusura” della stessa Università a rendere pubblici, sul suo sito, gli atti interni, come verbali dei suoi organi, delibere, ecc.. Ho sempre apprezzato le analisi di Pascuzzi, ma in questo caso mi sembra non tenga conto del reale interesse della comunità per gli atti dell’Amministrazione universitaria. L’Università è rilevante per gran parte dei membri della comunità trentina per l’offerta didattica, perché essa incide sulle prospettive di istruzione dei giovani trentini. Per conoscerne i cambiamenti di rilievo di solito basta l’attenzione ai mezzi di comunicazione, stampa e radio-TV. Un segmento molto più limitato della comunità trentina è interessato alle attività di ricerca, pochi operatori economici, politici e culturali, mentre più occasionale è l’interesse per l’attività dell’Università per l’educazione permanente o più in generale per il dibattito culturale in occasione di convegni e conferenze, per la quale anche l’attenzione della comunità non può che essere occasionale e segmentata.

L’università è un’istituzione che vive nella comunità, ma solo per una piccola parte di questa è rilevante, quella parte che si assume il ruolo di guida della comunità, guida politica, culturale, economica, che come tale vede rilevanti soprattutto le relazioni tra comunità locale e l’ambiente esterno, regionale, nazionale, europeo, globale. Il Trentino è luogo parziale di reti di relazioni sovralocali e l’Università (come per lo più gli istituti di ricerca, anche se sostenuti solo dalla Provincia, come lo era anche l’Università), è uno degli attori di tale rete. E alla comunità trentina interessa se la propria università è uno dei foci di rilievo di tali reti di relazione. A tal proposito giocano un peso grande certamente i decisori politici provinciali e nazionali, i responsabili della direzione dell’ateneo e dei dipartimenti, docenti e ricercatori, per come agiscono soprattutto a scala sovra-provinciale. Mi preoccuperei molto di più dell’assenza di Trento tra i responsabili dell’istituzione da poco fatta per la ricerca nel campo dell’Intelligenza Artificiale anziché dei pochi interventi sulla stampa sulla gestione amministrativa assente dal sito dell’Università.

L’Università si muove su orbite diverse da quelle della quasi totalità dei membri della comunità trentina e a chi di questa ha responsabilità di guida deve interessare che il soggetto orbitante non giunga a fine corsa, ma anzi renda incisivo il suo operare. Ricordo che agli inizi del mio ruolo di professore era molto sentito il problema di garantire la residenza a Trento dei professori universitari. Allora il problema stava nel fatto che i docenti non residenti correvano il rischio di orbitare presso altre università, usando Trento, senza investirvi il loro genio, le loro iniziative. Le politiche per la residenzialità, l’aumento di disponibilità di risorse per la ricerca garantite dalla Provincia, la creazione di Istituti di ricerca, specie tramite l’ITC, la chiamata di professori di grande qualità hanno reso l’Università di Trento assai attrattiva, ai primi posti nelle classifiche nazionali e per alcuni settori anche internazionali. Quel problema della residenzialità è stato per gran parte superato, l’Università di Trento ha assunto una sua entitività autonoma di prestigio. Valutiamo, allora, con metro diverso il rapporto tra comunità trentina e Università, non dal numero di lettere o articoli sulla stampa per la prossima elezione del Rettore. Ma sono certo che anche Pascuzzi è d’accordo.

Teologi e fede: serve una laurea statale in teologia?

sul Trentino del 7 gennaio è pubblicato un articolo di Maurizio Gentilini sul ritorno della teologia nell’università italiana grazie all’istituzione di un corso di laurea a Palermo in “Religioni e culture”, per il quale è stata stabilita una collaborazione con la Facoltà teologica di Sicilia. Il Gentilini coglie l’occasione per ripercorrere una vicenda trentina che mi pare aver avuto nei desideri di qualcuno, allora, una portata maggiore, non limitata a una collaborazione tra istituzioni statali ed ecclesiastiche, come è quella palermitana. Questa, tra l’altro, non conferisce una laurea in teologia, ma in “religioni e culture”, ossia in materia culturale nella quale rientrano anche le religioni. La cultura rientra in campi di studio nelle università statali già da tempo, oggetto di insegnamento, come nei corsi di “sociologia della religione” o “sociologia delle religioni” e di “sociologia dei fenomeni culturali” che a Trento hanno annoverato e annoverano studiosi di rilievo come lo scomparso Sabino Samele Acquaviva e, a Lettere, Salvatore Abbruzzese.

Ricordo che quando fu presentata a Trento l’eventualità di istituire una laurea in teologia presso l’Università di Trento in collaborazione con l’Istituto di Scienze Religiose, da professore dell’Università, anche con qualche responsabilità istituzionale, espressi un parere negativo. Alla radice stanno le medesime valutazioni che poi hanno portato la diocesi di Trento a costituire una sua propria scuola teologica, anche per la preparazione degli insegnanti di religione, togliendo tale compito all’Istituto di Scienze Religiose dell’Istituto Trentino di Cultura (ora Fondazione Kessler), ente laico provinciale. La questione cui rispondere è in fondo la seguente: la teologia cristiana è e
deve essere una disciplina “ancillare” alla fede o è una disciplina che può essere coltivata e insegnata indipendentemente dalla fede, anche da atei o da fedeli di altra religione? Forse per qualcuno la cosa più importante è l’autonomia epistemologica di una disciplina, che ha i suoi canoni che ben poco avrebbero a che fare con la fede. Non so se Gentilini sia su questa posizione. Per chi ha responsabilità di guida di una comunità cristiana (ma il ragionamento si applica anche ad altre religioni, come ad es. l’ebraica o la mussulmana) una teologia atea, agnostica, slegata da una fede, rischia di sviare la comunità dalla vera fede. Il problema diventa ancora più evidente se tra gli sbocchi professionali di un laureato in tale teologia vi fosse pure l’insegnamento di una religione, come quello di religione cattolica previsto in Italia dal Concordato. Vi è stato un acceso dibattito sul fatto che gli insegnanti di religione cattolica debbano ottenere il gradimento del vescovo della diocesi dove dovrebbero insegnare e ancora v’è chi avversa tale soluzione. Non basta certo l’aver ottenuto una laurea in teologia da un’università statale, sia pure con la collaborazione di una facoltà teologica ecclesiastica, per dare la garanzia che un docente di religione cattolica insegni religione cattolica e non altro, sia pure nei soli suoi aspetti di cultura, peraltro tutt’altro che secondari. Per questo mi pare semplicistico o eccessivamente accondiscendente alle tendenze secolarizzatrici, orientare positivamente l’opinione pubblica cristiana all’istituzione di una laurea statale in teologia, disciplina che dovrebbe sganciarsi dalla fede e dalla comunità religiosa che la professa.

Inviato a il Trentino e finora non pubblicato

Proteste professori per sospensione corsi di ideologia “gender”: giustificate?

Il Trentino di giovedì scorso 4 aprile ritorna sulla presa di posizione di alcuni colleghi professori dell’Università di Trento contro la decisione della Provincia Autonoma di Trento di sospendere i corsi integrativi sul “genere” e contro il convegno che in merito ha più recentemente organizzato la stessa Provincia. Si aggiungono ora anche professori di liceo. Il suo giornale parla di “rivolta dei professori contro la giunta”.

Non occorre molto per capire le dinamiche che si sono messe in atto. Ci sono stati anni nei quali una firma su un documento critico non si negava a nessuno, e questa volta era in gioco la figura di un pro-rettore, che un suo collega invano ha cercato di far ragionare anche sul “Trentino”. Un pro-rettore di quelli tosti e bene introdotti negli ambienti di sinistra se gli (le) è stata offerta la candidatura per l’elezione suppletiva alla Camera per il collegio di Trento.

Non ho mai visto nessuno dei colleghi professori protestare per i convegni a tesi organizzati dalla Provincia quando a governarla c’era la sinistra, a cominciare dal Festival del’Economia, spesso travalicato in festival della politica di sinistra. Alcuni prendevano la loro parte di gloria, grati. Ora si accusa la Giunta di riportare ad “epoche buie”, di dare “segnali e atteggiamenti di chiara impronta autoritaria e fascista”. Ridicolo. Solo perché chi ha la responsabilità della scuola pubblica di fronte ai genitori e alla comunità ha inteso evitare che, in nome della lotta al pregiudizio, si considerasse doveroso educare tutti i bambini e i giovani all’”ideologia del gender” (mascherata) e perché ha voluto organizzare un convegno che chiamasse esperti che di questa ideologia non fossero espressione, dato che a proporre questa da anni c’erano coloro che sostenevano i corsi integrativi. Ma dove sta scritto che una comunità non abbia la libertà di sentire una voce diversa, dopo che per anni ne ha sentito altre e ha dato ad esse spazio? Si ripete l’intolleranza dimostrata dalla sinistra nei confronti del recente Congresso Mondiale delle Famiglie a Verona. Nessuno osi prendere posizioni contrarie all’ideologia dominante e se lo fa, deve dare spazio anche ad esponenti dell’ideologia dominante, altrimenti è un fascista e autoritario.

Ma poco convincente anche la “rivolta dei professori” per l’intervento delle forze dell’ordine a garantire un ordinato svolgimento del convegno. A negare ai partecipanti e ai relatori la libertà di dire la propria erano i “contestatori” e la magistratura dirà se per farlo hanno sfondato una porta secondaria. Quante volte mi sono sentito negare il permesso di entrare per il rispetto di norme sulla sicurezza, data la capienza di una sala. Chi ama la libertà e lo stato di diritto non vuole imporsi con la forza e se vuole protestare per la carenza di posti, lo può fare “democraticamente”, non con lo stile da “fascismo (autoritarismo) rosso” cui contestatori di sinistra ci hanno abituato per decenni a partire dal 1968.

Spiace vedere bravissimi colleghi professori allinearsi a proteste di chiaro sapore politico, mascherate da lotta al fascismo e all’autoritarismo. Forse un po’ meno di conformismo alla cultura dominante su temi eticamente sensibili non avrebbe guastato per degli intellettuali. Caro Direttore, conoscendo alcuni di essi stento a credere che siano dei “rivoltosi”; semplicemente molti o non hanno approfondito la questione e non se la sono sentita di dire di no a un pro-rettore (pro-rettrice) su un tema che profuma di “progressismo”. Non sia mai! L’università è per il progresso, anche a costo di mettere tra parentesi lo spirito critico.

scritto 4 aprile 2019

Un monumento a Trento per Mauro Rostagno? Quali le sue virtù nel periodo trentino?

Il Trentino del 20 dicembre dedica due intere pagine a Mauro Rostagno. Se ne analizzano le “mille vite”, una o due delle quali a Trento, se ne ricorda la condanna per aver creato le condizioni , al circolo Macondo, dell’uso di stupefacenti, le sue varie esperienze successive che si sono concluse con il suo assassinio probabilmente per la sua lotta alla mafia. Essendo la fonte principale delle informazioni Marco Boato, leader studentesco prima a lui alternativo, ma poi suo compagno di Lotta Continua, il quadro per quanto concerne l’esperienza trentina non poteva che essere “laudativo” come quello, in altre occasioni, fornito dai contestatori sessantottini. Tuttavia una pagina e mezza del suo giornale aiuta a tracciare un profilo di interesse, senza acritiche eccessive santificazioni.

Si stacca da questo taglio la mezza pagina del Trentino con la quale si accusa Trento di “perdere tempo” nell’erigere a Rostagno un monumento (su iniziativa di un gruppo di nostalgici di Rostagno), mentre invece Torino lo celebra. Se la celebrazione torinese è quel murale riportato in foto nel suo giornale, mi sembra più espressione dei dipintori notturni di pareti spoglie che un riconoscimento pubblico, che semmai si coglie nell’intitolazione di un piazzale (immagino di periferia; siamo lontani dalle celebrazioni di Cavour, Garibaldi, Vittorio Emanuele, e altri, che hanno stravolto anche in Trentino la toponomastica tradizionale pre-annessione). In ogni caso che ragioni avrebbe Trento di celebrare Rostagno? Unica possibile ragione positiva la sua lotta antimafia in Sicilia, come molti, anche vittime, non celebrati a Trento da monumenti. Ve ne sono altre di negative e proprio riguardanti il periodo passato da Rostagno a Trento.

Di quali virtù Rostagno sarebbe testimone a Trento? Non certo di studente modello, se ha fatto saltare le luci a Sociologia per poter copiare, con i suoi compagni, una prova d’esame di matematica; non certo di esponente modello della protesta studentesca contro l’autoritarismo accademico (peraltro episodico a Trento), se in riunioni a Villa Tambosi cercava di porre rivendicazioni alle quali le autorità accademiche non potessero dare risposta positiva, perché il suo obiettivo non era di rendere meno autoritaria l’università, bensì quella di fare la rivoluzione politica; non certo di residente trentino amante della città di Trento, se il suo giudizio su Trento e i trentini era sprezzante (come quello di quasi tutti i contestatori di allora), non comprendendone, invece, i tratti di una cultura civile di lunga tradizione; non certo di democratico, viste le prevaricazioni autoritarie di assemblee e occupazioni; e per finire, non certo di giovane esemplare nella propria vita privata familiare, riconosciuto utilizzatore di numerose infatuazioni femminili “compagne rivoluzionarie”. Ma si sa, i numerosi “amori” per qualcuno, sono un tratto della “grandezza” di una persona! Ma per fortuna ci sono altre grandezze, anche nella vita privata, come quelle di Degasperi e Moro.

Rostagno ha lasciato Trento prima di terminare gli studi per andare a Milano a far la rivoluzione. Trento non era per lui il posto adatto, troppo piccola, poco industriale, culturalmente arretrata. E ha trascinato con sé compagni e compagne. L’amicizia con Curcio, della quale parla il giornale, non mi sembrava poi così visibile, anzi. Tra i due diverso era l’approccio politico, anche nelle assemblee, più sensibile a Freud quello di Curcio. Curcio studente viveva lavorando nella segreteria di un vicesindaco socialista di Trento mentre Rostagno non si sapeva di che cosa vivesse (si diceva che fosse pagato dal PSIUP). Uno studente che a Trento si occupava solo di sollevare la protesta col fine della rivoluzione di che cosa viveva? Più esemplari i molti studenti-lavoratori che lavoravano per poter studiare o quelli che vivevano del pre-salario, che perdevano se non ottenevano risultati sopra la media agli esami, e guai perderne uno. Curcio ha avuto il difetto di fare quello che Rostagno diceva: usare la violenza, anche armata, per la rivoluzione. Erano in tanti a dirlo tra i contestatori di allora: alcuni coerenti lo hanno fatto; altri, più furbastri, lo hanno solo detto, altri ancora negano di averlo mai detto. E Marco Boato ne è testimone.

Spero proprio che il Comune di Trento ci ripensi alla celebrazione con monumento: basta e avanza la targa dedicata a Rostagno a Sociologia. Per fortuna, sobria, ma a mio avviso anch’essa di troppo.

Università: opportunità di crescita della persona da offrire a tutti coloro che lo desiderano

di il 17 Settembre 2017 in servizi pubblici, università con Nessun commento

L’Adige di domenica 3 settembre dedica il titolo principale di prima pagina al problema del “numero chiuso” di ammissioni alle università, tornato all’attenzione pubblica a seguito di una sentenza del TAR del Lazio su un ricorso di studenti della Statale di Milano. A Trento si è sempre preferito parlare di “numero programmato”, in ragione della disponibilità di strutture didattiche adeguate.
Ricordo come a Sociologia a Trento, ancora Istituto Superiore (Universitario) di Scienze Sociali, per un anno furono addirittura bloccate le nuove iscrizioni, che nei primi anni raddoppiavano da un anno all’altro. Al blocco succedette l’anno successivo il “numero programmato”, per Sociologia senza gravi scompensi negli anni (nel frattempo si erano aperti nuovi corsi di laurea di Sociologia in molte università italiane).
L’esplosione degli accessi all’università ha poi condotto a introdurre con norma nazionale il “numero programmato” per medici, veterinari e architetti: la motivazione principale della programmazione era indicata nella necessità di raccordare il numero di laureati alla prevedibile quantità di sbocchi occupazionali. C’era un’esplosione di laureati e di studenti in medicina (e di architetti), candidati, si pensava, alla disoccupazione. Ricordo di aver partecipato a riunioni di sociologi delle diverse Facoltà di Sociologia italiane che tentavano di applicare il criterio degli sbocchi professionali anche nella programmazione degli accessi ai corsi di laurea in sociologia.
Poi è accaduto, esperienza diretta anche del Trentino, che non reperiscano più i medici necessari per alcune strutture sanitarie, che i calcoli programmatori orientati alla quantità di sbocchi professionali si siano rivelati errati. Come a suo tempo già sostenevo per i sociologi, non vi sono sufficienti conoscenze, né mai vi potranno essere, che consentano, in sistemi aperti e di libero mercato, di prevedere in modo attendibile, e per un periodo che non sia brevissimo, la domanda di determinati posti di lavoro. Lo potevano fare forse i sistemi socialisti di economia pianificata e centralizzata, ma non hanno saputo reggere la concorrenza dei sistemi di mercato.
Mi chiedo, poi, quanto giusto sia concepire l’università principalmente come canale di formazione per dei posti di lavoro, specie per i corsi di studi in scienze umane, ma non solo. L’istruzione fino ai più alti gradi è un bene in sé, per la crescita umana della persona. Vale indipendentemente dal fatto che poi si svolga un lavoro che utilizza spezzoni di istruzione avuta nelle istituzioni disegnate per la trasmissione e l’elaborazione delle conoscenze. Il fatto che in alcuni paesi si arrivi a quote elevatissime di laureati sta a testimoniare di tale valore, indipendentemente dal fatto che le conoscenze acquisite siano nella fisica, nell’astronomia, nell’economia, nella medicina, nella sociologia, nella psicologia, nel diritto, e così via.
Il problema aperto è quindi quello di come consentirea tutti coloro che desiderano “crescere in conoscenza” di poterlo fare, anche nelle apposite istituzioni se preferite all’auto-organizzazione della propria formazione (hanno tra l’altro anche il vantaggio del riconoscimento del valore legale del titolo di studio). Si tratta di scegliere la misura delle risorse (pubbliche e private) da destinare all’istruzione media e superiore, come si sceglie quella per altri servizi, da quelli sanitari a quelli per i trasporti e le comunicazioni. Se v’è una domanda inevasa di istruzione, il problema primo è quello di ampliare l’offerta, non di restringere la domanda. Sarà poi il sistema delle aziende pubbliche e private, o delle professioni, ad allocare in modo efficace ed efficiente le diverse persone ai vari ruoli lavorativi. E un operaio, un artigiano, un impiegato, un lavoratore dei servizi alla persona che abbia compiuto studi universitari è comunque, a parità di altre condizioni, una persona umanamente più ricca, per sé, per la famiglia, per la comunità, se quegli studi non avesse compiuto. Basta conoscere un po’ ciò che accade in paesi nei quali più i livelli di istruzione (di prosecuzione degli studi dopo l’obbligo) sono alti per convincersene.

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