L’editoriale di Pierangelo Giovanetti su l’Adige del 7 dicembre rappresenta assai bene la reazione della maggior parte dei leader di opinione trentini alla vittoria del NO al recente referendum costituzionale: rileva il NO ma rileva soprattutto la diversità di voto fra Trentino e Alto Adige. Le conseguenze che se ne traggono non sono a mio avviso convincenti.
La prima conseguenza che Giovanetti segnala ai lettori è la dimostrazione che ai trentini interessi meno che ai sudtirolesi (di lingua tedesca) la difesa dell’autonomia, assumendo come dato incontrovertibile che la nuova legge costituzionale fosse una difesa “degli interessi territoriali” dell’identità e dell’autonomia. Non so da dove tragga questa certezza. Il rimando per le regioni ad autonomia speciale a una revisione statutaria fatta “di intesa” fra Stato e Regioni non certifica certo che il senso della “revisione” sia inteso in direzione di potenziamento dell’autonomia, quando le modifiche costituzionali per le altre regioni andava proprio in direzione opposta. Se la legge avesse voluto non applicare alle regioni ad autonomia speciale le nuove norme, lo avrebbe potuto dire, ma non lo ha fatto. Di fronte a una proposta governativa dell’obbligo di “adeguare” gli Statuti, i parlamentari delle regioni ad autonomia speciale avevano ottenuto l’obbligo di “revisione”, “di intesa”, ma senza che la procedura dell’intesa comporti per le autonomie speciali diritto di veto in caso di disaccordo. Il prezzo di tale concessione procedurale è stato il sostegno alla legge anche in fase di referendum. I sudtirolesi hanno obbedito alla SVP, i trentini non hanno fatto altrettanto nella stessa misura nei confronti del PD e del PATT. Questione di “disciplina”, non di attaccamento all’autonomia. E’ la sua seconda considerazione, condivisibile e confermata dai fatti e non solo in questa occasione.
Ma a questa il Direttore de l’Adige aggiunge quella che la “diversità trentina” rispetto al resto del Nord Italia sarebbe sparita. In realtà è da tempo che in indagini condotte su identità e orientamenti di valore dei trentini, i cui risultati sono pubblicati, viene constatata la progressiva “italianizzazione” del Trentino. A una debole specificità di identità ha fatto finora da correttivo, da parziale compensazione, un forte sentimento di appartenenza provinciale-regionale. L’anomalia “trentina” da Giovanetti evocata solo in termini di voto politico (citando la diversità di scelte elettorali in epoca di “berlusconismo trionfante” – ma nel 1994 non è andata così) è semplicemente legata alla scelta della SVP , dopo la crisi della DC, di allearsi con la sinistra, trascinando (con qualche resistenza) anche il PATT, e ciò in rapporto ai difficili rapporti in Alto Adige con partiti come AN e FI. Si può aggiungere una temporanea sopravvivenza del sistema DC più forte che altrove (vedasi Dellai), che ha più a che fare con la capacità di garantire rendita politica che con una “diversità” culturale trentina.
Senza un progetto identitario specifico, ebbi modo di scrivere a conclusione di tali indagini, rischia di essere compromesso a lungo termine anche il forte sentimento di appartenenza e di autonomia, ma non mi pare che si possa dire che il risultato del voto referendario dimostri che tale processo sia già compiuto.
E vengo alla terza considerazione di Giovanetti: la difformità di comportamento elettorale renderebbe chiara la diversità di situazione fra Trentino e Alto Adige. Sinceramente non credo che a Roma o a Milano non si siano finora accorti di tale diversità: basta osservare i risultati di tutte le elezioni politiche o basta ricordare il conflitto degli anni Sessanta. Che il Trentino sia parte della nazione italiana e che i sudtirolesi di lingua tedesca siano parte della nazione austriaca ce lo ricordano uomini come Degasperi e Piccoli, trentini leader nella nazione italiana; ce lo ricordano uomini come Magnago, la storica avversione all’unità regionale e lo stesso Statuto della SVP, che rivendica ancora il diritto all’autodeterminazione. Non si possono dissimulare le diversità con un desiderato voto simile a un referendum. Serve, invece, mantenere vitale la Regione, legame istituzionale tra “diversi” a seguito del patto Degasperi Gruber. Non è sostituibile da nessuna “euregio”, data la vigente configurazione dei poteri, delle sovranità.
Per questo penso che se l’esito del referendum è il “de profundis” della Consulta e della Convenzione per arrivare a un “Terzo Statuto” è solo una “benedizione”. Di fronte alla prospettiva di indebolire ancora la Regione, configurandola solo come organismo di collaborazione tra le due Province, meglio mantenere la Regione com’è, cessando lo sconcio della sua spartizione di fatto di guida politica (l’alternanza dei Presidenti delle Province) e di risorse. Si celebra l’apprezzamento di Kompatscher per la collaborazione fra le due Province, ma esso è come il bacio della morte: tale collaborazione non necessita di un Regione vitale; va bene, ma da sola rappresenta la morte della Regione, che resta, se resta, simulacro solo formale (l’unicità formale dello Statuto).
Da ultimo la considerazione di Giovanetti sulle “colpe” dei partiti che ufficialmente erano per il SI, ma con parti dissenzienti. Può darsi che il PD non sia il “baricentro della politica e del sistema autonomistico insieme alla SVP” (il ruolo che aveva un tempo la DC), ma questo non certo perché una sua parte ha testimoniato un attaccamento alla Costituzione, a una concezione partecipativa della democrazia, a una Repubblica che valorizza le autonomie (tutte, non solo quelle del proprio orto). Questa parte dissenziente (come quella entro il PATT) non ha sacrificato i principi, i valori della Costituzione, alle convenienze di potere. E probabilmente il suo servizio alla comunità è stato migliore!