Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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etica pubblica

Perché i giudizi su pratiche omosessuali diventano per l’Adige pregiudizi?

di il 11 Gennaio 2025 in etica pubblica, famiglia con Nessun commento

Egregio Direttore

l’Adige dell’8 gennaio pubblica un’intervista di Francesca Cristoforetti a una psicologa di nome Laura Mincone sullo stress che sperimentano le persone con sessualità particolare. L’intervistatrice considera pregiudizio il considerare negativamente la pratica dell’omosessualità e altre varianti. Perché anzichè un pregiudizio non può essere un giudizio, che merita rispetto? Si può cominciare dalla natura: I mammiferi hanno distinzioni morfologiche e funzionali tra maschi e femmine anche nella dotazione di organi sessuali e riproduttivi. E’ un pregiudizio pensare che il mammifero homo sapiens non sia normale se si comporta diversamente da come fanno tutti gli altri mammiferi? Ma la differenza tra i sessi non è solo dei mammiferi, ma di tutti gli esseri viventi con organismi complessi. E’ un pregiudizio pensare che gli organi per l’accoppiamento negli umani come nei mammiferi sono distinti da quelli destinati ad espellere il prodotto della digestione e pensare che confonderne le funzioni non sia normale?

Di altra natura la questione della responsabilità di condizioni che orientano a pratiche omosessuali o simili. Per millenni si è pensato che le anormalità fossero colpa o malattia. La gran parte delle società lo pensano ancora, ma le conoscenze acquisite scientificamente non sono definitive ed esaustive. Tuttavia da sociologo non posso non osservare quanto Durkheim osservava in merito ai suicidi: il tasso di suicidi varia molto tra le società, quindi le cause sono sociali. Lo stesso dicasi del tasso di omosessualità. E’ pregiudizio orientare le scelte di politica culturale e sociale in modo da ridurre il tasso di omosessualità? O è espressione di un giudizio su ciò che è bene per la società? La psicologa intervistata cita indagini che dimostrano come i figli procuratisi da coppie omosessuali non soffrono svantaggi. Ce ne sono altre che proverebbero il contrario, ma in ogni caso difficile qualificare come pregiudizio il pensare che una società sana non veda di norma famiglie naturali con papà, mamma e figli.

Da ultimo una nota sul concetto di pregiudizio. Definire un giudizio come pregiudizio equivale a dichiararlo falso. Un giudizio può essere condiviso o meno. La nostra società è fatta di giudizi diversi, più o meno condivisi e su di essi si basa il controllo sociale informale, quello che più conta. Qualificarli di pregiudizi ha una radice autoritaria.

LETTERA INVIATA A L’aDIGE 4 GIORNI FA E NON PUBBLICATA

Quotidiano trentino il T: scelta di sinistra radicale per utero in affitto

di il 1 Dicembre 2024 in etica pubblica con Nessun commento



Egregio direttore.

il quotidiano T del 28 novembre dedica l’intera seconda pagina all’esperienza di una donna americana che ha scelto di mettersi a disposizione di una coppia di gay italiani che desideravano un figlio. Il ruolo scelto è di incubatrice di un ovulo fecondato di altra donna. Mi sarei aspettato che il giornale oltre a presentare l’esperienza di incubatrice lieta di soddisfare il desiderio di due gay, avesse presentato quanto di disumano vi è, del tutto taciuto anche nelle domande dell’intervistatrice. Un bambino definito come dono a qualcuno è ridotto ad oggetto. Si regalano oggetti,non esseri umani. Lo si poteva fare con uno schiavo, ma fortunatamente la schiavitù à stata abolita. E che sia disumano risulta evidente anche dal fatto che per fare il regalo del bambino lo si genera privandolo della madre e dopo la gravidanza anche della donna che ha fatto da incubatrice, per essere consegnato a due uomini, senza magari sapere quale è forse padre biologico. Quello che conta è soddisfare un desiderio. E l’articolista poi dà spazio alla critica della legge che considera reato una pratica disumana anche se compiuta all’estero. Capisco che il quotidiano che Lei dirige abbia una parte dedicata a “canpi liberi”, ma la scelta di dare spazio a pratiche disumane con spirito di simpatia rivela una linea culturale che speravo non condivisa da chi, forza economica e socio-culturale trentina, ha deciso di dare ai trentini un giornale governato da loro. Evidentemente ho avuto attese sbagliate,

Distinti saluti

Renzo Gubert
iNVIATO AL T MA NON PUBBLICATO

I silenzi dell’editoriale abortista del quotidiano T

di il 9 Maggio 2024 in etica pubblica, famiglia, sanità con 1 Commento

Egregio Direttore dott. Casalini, 
il numero del 3 maggio del giornale da Lei diretto affida l’editoriale a una professoressa associata di scienza politica, Alessia Donà, che considera diritto della donna incinta abortire e si esprime negativamente sulla possibilità che nei consultori familiari vi sia una presenza associativa motivata a rimuovere gli ostacoli che una donna può incontrare nel portare a termine la sua gravidanza. Da trentino che ha subito apprezzato la presenza in Trentino di un quotidiano autonomo espressione di forze sociali ed economiche locali mi chiedo se vi sarà occasione di leggere un editoriale che non dimentichi in tema di tutela della vita umana quanto la professoressa Donà tace e che non tratti da reazionario, come viene fatto per la ministra Eugenia Rocella, chi ricorda che la legge 194 è intitolata in primis come tutela della maternità e consente l’aborto solo a certe condizioni. Se fosse un diritto delle donne disporre della vita e della morte del bambino o bambina che portano in grembo, non avrebbe senso sottoporre l’autorizzazione ad abortire a procedure complesse e se proprio si vuole insistere a chiamarlo “diritto”, si dovrebbe onestamente aggiungere che è un diritto condizionato. Si dovrebbe anche aggiungere che se un medico o un’infermiera possono rifiutarsi di metterlo in pratica perché ciò violerebbe la loro coscienza, vuol dire che se anche lo si vuole chiamarlo diritto, non è certo un diritto che la coscienza di molti considera tale, ma considera uccisione di un essere umano. Se i favorevoli a chiamare “diritto” tale uccisione sono ostili a presenze di associazioni di sostegno alla maternità, pur previste anche dalla legge 194, perché susciterebbero nella donna che decide di abortire “sensi di colpa”, ciò significa che è un diritto del cui esercizio si potrebbe anche vergognarsi, essendo chiara la sua natura di soppressione di un essere umano in formazione. Non è facile convincersi che è solo gestione del proprio corpo, come anche l’editorialista sostiene, mai mettendosi dalla parte di chi viene soppresso. Costa così tanto riconoscere la verità? Mi permetterei di suggerire alla prof. Donà di leggere i risultati delle ricerche di Donatella Cavanna, anche lei già docente di psicologia a Trento e poi pofessoressa ordinaria all’Università di Genova. La coscienza della donna si ribella anche non volendo all’esperienza di abortire. Abortire viola l’essre profondo di chi abortisce. Perché tacerne? Si fa proprio un servizio ai diritti delle donne o si mascherano ferite difficili e lunghe da sanare?

Finora non pubblicata,

Congresso mondiale sulla famiglia a Verona; giuste le critiche di area cattolica di essere troppo di parte?

Penso giusto in una rubrica intitolata “Dialogo aperto”, non limitarsi a dire la propria, ma rispondere a chi esprime critiche a quanto si è detto, sperando che ciò sia la premessa per far crescere il dialogo nella comunità cristiana. Per questo Le scrivo in risposta a una lettera pubblicata su V.T. del 14 aprile a firma di Giuseppe Valentini (che non conosco). La mia lettera pubblicata la settimana precedente, critica nei confronti del Suo editoriale in merito al Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona, gli ha lasciato “ l’amaro in bocca”. Vengo accusato, assieme all’autrice di un’altra lettera, di non “leggere la parola fondante della famiglia stessa: amore e accoglienza”. Non capisco il nesso con quanto avevo rilevato criticamente, ossia l’accusa da Lei mossa al Congresso di Verona di essere “di parte” e il rilievo prioritario che i cattolici dovrebbero dare al problema demografico anziché ai problemi dell’aborto e della natura della famiglia, unione stabile di uomo e donna aperta alla procreazione. Perché quanto da me rilevato sarebbe trascurare il fondamento della famiglia, ossia amore e accoglienza, o addirittura espressione di “supponenza se non odio”?

Il problema, per Valentini, starebbe nel non essere “accoglienti” verso le diversità. Certamente ho cercato e cerco di educare i miei cinque figli e le mie quattro figlie a vivere la loro sessualità in modo normale, vale a dire in accordo con il loro sesso genetico e biologico e mi dispiacerebbe se ciò non accadesse. Se ci fossero dei problemi (per ora grazie a Dio non ci sono), cercherei di aiutarli per superarli, come mi auguro che cultura, scienza e politica cerchino di aiutare a superarli coloro che ne soffrono. Lo stesso vale per le scelte di fare famiglia; cerco di far capire ai miei figli che i rapporti sessuali non sono un gioco erotico, ma vanno riservati alla coppia che ha assunto le sue responsabilità reciproche e verso i figli. Da cristiani i rapporti sessuali assumono in più un significato ancora più grande, quello di essere “sacramento di Grazia” l’uno per l’altro. E cerco di conseguenza che cultura e politica si pongano l’obiettivo di favorire la stabilità della famiglia, la fedeltà tra i coniugi, e cerco che la Chiesa non abbia timore a dire, come fece un vescovo di New York, Fulton Sheen, che è bene “essere in tre per sposarsi” (e il terzo è Dio) e che ha un grande valore la verginità prima del matrimonio, tra l’altro occasione per approfondire i rapporti di coppia anche sul piano spirituale e culturale, premessa per la stabilità futura. E per questo sarei sordo ai principi morali dell’accoglienza e dell’amore?

Ancor più strano il richiamo di tali principi che Valentini fa a proposito dell’aborto in caso di gravidanza indesiderata o di una gravidanza in presenza di una anomalia del nascituro. Mi sembrerebbe di poter dire che se si è animati da amore e accoglienza, per prima cosa si dovrebbero accogliere i figli già vivi nel grembo materno anche se indesiderati o se con delle anomalie. Forse che essi non sono esseri umani, e per di più inermi, in stato di debolezza? Dov’è la coerenza con i principi morali di amore e accoglienza se si legittima l’uccisione di un essere umano, perché scomodo? O almeno si ha “comprensione” per tale uccisione? Ci si scandalizza, da ipocriti, per l’evidenza di una statuina che riproduce il feto d’uomo a pochi mesi dal concepimento e si tace sul fatto che la realtà nei reparti di ginecologia, sostenuti con i denari di tutti, è assai peggiore, con feti d’uomo estratti fatti a pezzi e poi messi tra i “rifiuti speciali”. E si viene a dire che in fondo va bene perché si evitano aborti clandestini? Certo mi impegno per evitare che tali uccisioni “seriali” trovino il sostegno dei pubblici poteri e della cultura dominante. E mi permetto di criticare il mio settimanale diocesano quando scrive in un editoriale che il dire chiaramente queste cose è “di parte”, anche se l’accusa di essere di parte è dovuta, come credo, al fatto che l’iniziativa non era stata presa dalle organizzazioni ecclesiali ufficiali, come molte prese di posizione critiche e di presa di distanza lasciano intuire. “Io sono di Paolo e io sono di Apollo”: il quadro condannato da San Paolo si è ripetuto e la Chiesa Italiana ne è stata vittima. E il risultato è il disorientamento perfino su principi morali fondamentali. Bene!, Anzi male, malissimo.

scritto 14 aprile 2019

Festival della Famiglia a Trento; anche il centro-destra a guida Lega schiavo del “politicamente corretto” in materia di aborto quale causa di crisi della natalità e di ruolo educativo e di cura della madre nei primi mesi di vita dei figli: sempre silenzio su aborto e asili nido per mandare le madri subito al lavoro fuori casa

Lunedì scorso, 2 dicembre, a Trento ho assistito all’incontro di apertura del Festival della Famiglia, che si è svolto all’insegna della continuità con i precedenti. Forse eccezioni parziali un Presidente nazionale del Forum delle Famiglie con un po’ più di coraggio, un assessore della Regione Lombardia, governata dal centro-destra, anziché dell’Emilia-Romagna governata dalla sinistra, una rappresentante della Federazione europea delle associazioni delle famiglie numerose che ha avuto il coraggio di lodare il governo ungherese per le sue politiche familiari, governo giudicato assai negativamente dal centro-sinistra. Non è molto, ma meglio di nulla per segnalare la presenza in Trentino di un “governo popolare autonomista del cambiamento”. Ciò che è mancato dal lungo pomeriggio da lei condotto con la consueta maestria professionale e cortesia verso tutti è il coraggio di sfidare, nelle relazioni e negli interventi, alcune posizioni ormai acquisite nel patrimonio del “politicamente corretto”, costruito soprattutto dal centro-sinistra.
Le propongo qualche esempio. Il primo e più evidente è stato il silenzio su una delle scelte possibili per uno dei componenti della coppia, assai più spesso della donna, di scegliere come propria occupazione la cura dei propri familiari, cura anche educativa per i figli. Il fatto che dopo la nascita del primo figlio molte donne lascino il posto di lavoro alle dipendenze di qualcuno per un altro lavoro, quello di cura del figlio, è visto come un fatto assai negativo cui rimediare. La ministra ha addirittura detto che per i primi 1000 giorni di vita di un bambino è essenziale la disponibilità di asili nido. Almeno per i primi 700 poteva prevedere la possibilità generalizzata di congedo lungo in parte retribuito, come la Regione, sotto la spinta della DC e in particolare di Pino Morandini, oltre che mio e di Paola Vicini Conci, fu realizzato anni fa. Sottostante a questa posizione la versione tradizionale femminista che la donna si realizza solo se lavora fuori della famiglia, anche se il tipo di lavoro è magari il medesimo, quello di cura.
Connessa a tale orientamento, vi è anche la sottolineatura di come il lavorare fuori casa sia una condizione favorevole per fare più figli. Lo si deduce dal fatto che i tassi di fecondità sono più alti nei paesi nei quali la quota di donne che lavora fuori casa è la più alta. Basterebbero cognizioni elementari di statistica per capire che una correlazione non equivale a un rapporto causa-effetto. Fa specie che simili errori siano ripetuti anche da coloro dalle cui decisioni dipendono le politiche sociali.

Altro tema taciuto è quello del contributo che alla denatalità ha dato e dà la legalizzazione e il finanziamento con pubblico denaro delle pratiche abortive, violando sistematicamente le norme (la legge 194) che in Italia hanno regolato il fenomeno dell’aborto. Ciò equivale a legittimare senza riserva alcuna il diritto di vita o di morte su essere umani nella loro prima fase di crescita. Quanto meno della necessità di prevenire l’aborto rispettando la vita, già prevista dalla legge vigente, si poteva parlare.
Ma c’è una domanda da lei ripetutamente posta, alla quale nessuno ha saputo o voluto rispondere, perché la risposta avrebbe esposto a critiche: come mai il tema della famiglia è ritenuto un tema di “destra”? Si è svicolati dicendo che la famiglia e la denatalità sono temi di tutti. Ma si poteva pur dire che nella cultura tradizionale, poco stimata dalla sinistra che adora invece il cosiddetto “progresso”, la triade “Dio, patria e famiglia” riassume una parte importante di orientamenti di valore. Per quarant’anni e più ho svolto indagini sui valori in molte parti del mondo e ovunque tale sindrome si presenta, particolarmente condivisa dai ceti di più basso status socio-economico, di età più avanzata, dalle donne, dagli abitanti delle aree rurali. E sono i ceti che poco hanno a che fare con la destra “economica”, che politicamente è anche a sinistra. Sono i ceti meno “modernizzati”, ma la crisi della modernità ha aperto anche ad adesioni di ceti più istruiti, urbani, di sesso maschile, più giovani, connotati dal post-materialismo, del quale anche recenti movimenti giovanili, e non solo, portano le tracce. E allora il tema famiglia è sentito da chi alla tradizione si sente legato e chi dalla modernità individualista si sente disilluso. Con meraviglia di chi aveva puntato in nome del progresso al superamento della famiglia come luogo primario di educazione e di esperienza stabile di solidarietà interpersonale. Come non riandare alle posizioni dei “sessantottini”? E lo si poteva dire, rivendicando una posizione culturale.

scritto 3 dicembre 2019

Gestione irrazionale blocco strade per Giro d’Italia

di il 30 Dicembre 2019 in etica pubblica con Nessun commento

Il Giro d’Italia era una volta una festa; oggi non lo è. Dopo molti fine settimana con pioggia e freddo, impossibile provvedere alle semine di patate, fagioli, granoturco e colture da orto a Primiero, finalmente un sabato di sole. Alzata prima del solito per governare gli animali a Trento e poi partenza per Primiero. Sapevo che da Feltre partiva la tappa del Giro d’Italia, alle 11.20 di mattina, ma pensavo che il tempo sarebbe stato sufficiente per evitare il blocco delle strade. Poco prima delle 9 sono nella lunga galleria di Arsiè e c’è la coda. Come mai, un incidente?. Macché, ad Arsié i carabinieri bloccano il transito. Due ore e mezza prima del passaggio del Giro, senza che i tabelloni sulla Valsugana indicassero niente. Dopo chilometri a passo d’uomo e arresti in galleria, l’obbligo di tornarsene indietro, con il caos conseguente di veicoli, macchine e camion. Qualche chilometro, forse due, oltre Arsiè c’è il bivio per Primiero, dove il Giro transita dopo le 16 e scende per lo Schener fini al bivio per Croce d’Aune. Non mancano “solo” due ore e mezza per il tratto Feltre-Arsiè, ma ben sette ore prima del transito per lo Schener, per andare a Fiera. Sarebbe bastata una selezione del traffico, lasciando percorrere, “solo” due ore e mezza prima del transito meno di un paio di chilometri di statale, per consentire a chi era destinato a Primiero di potervisi recare, ma niente. Il carabiniere che blocca il traffico è categorico. Si deve fermarsi fino alla 13, quando il transito sarà riaperto per Feltre, o rinunciare a proseguire il viaggio. Ma alle 13, penso, si troverà poi bloccata la strada dello Schener. Impossibile raggiungere Primiero se non nel tardo pomeriggio, quando non c’è più tempo per i lavori nel campo e nell’orto. Non mi è restato che tornare a Trento, arrabbiato.

E’ comprensibile come il passaggio di una corsa ciclistica importante comporti blocchi del traffico, ma mi chiedo se tra coloro che decidono il programma di chiusure vi sia qualcuno che tuteli gli interessi dei comuni cittadini, di chi deve lavorare o semplicemente spostarsi per altre ragioni. Bastava che qualcuno attento ai cittadini avesse fatto presente l’assurdità di quanto in questo caso era stato deciso per trovare agevolmente una soluzione giusta, nella piena salvaguardia delle esigenze della corsa ciclistica. Oso sperare che la decisione non sia stata presa solo dai Carabinieri, nel qual caso li inviterei a farsi carico di una giusta considerazione anche delle esigenze dei comuni cittadini. In ogni caso da oggi in poi il Giro per me e mia moglie non evocherà più festa alcuna.

scritto 1 giugno 2019

Teoria gender e programmi integrativi nelle scuole:sbagliato evitarlo?

Sul Trentino del 31 dicembre sono riportate dichiarazioni del cons.Ghezzi e della cons. Ferrari, duramente critiche nei confronti della Giunta provinciale per aver sospeso corsi integrativi scolastici inerenti parità di genere al fine di verificare se tali corsi non fossero lo strumento per educare bambini e ragazzi alla “teoria del gender”, ossia la teoria secondo la quale l’identità sessuale sarebbe una “costruzione sociale”.

Mi auguro che la passata Giunta provinciale non abbia avallato per anni programmi scolastici integrativi che propongano agli alunni simili posizioni culturali, ma certo la veemenza con la quale i due consiglieri sopra citati hanno reagito fanno sospettare che gli amministratori di sinistra della scorsa legislatura abbiano paura che la loro operazione culturale, volta a somministrare, anche in dosi omeopatiche, la teoria del gender, venga disvelata. E per cominciare negano che una “teoria del gender” esista, il modo che ritengono più efficace per non farne scoprirne gli elementi in alcuni programmi da loro finanziati.

L’accusa alla Giunta Fugatti e agli assessori competenti al riguardo, sarebbe di essere un Giunta etica. Sorprende che uomini di cultura non abbiano coscienza del fatto che l’etica è connaturata alla politica. Questa persegue il bene comune. E il giudizio su ciò che è bene o non lo sia è proprio un giudizio etico. Quanto Ghezzi e Ferrari sostengono, ossia l’educazione degli alunni a sfuggire agli elementi di identità sessuale dovuti alla “costruzione sociale”, per essi è un bene, mentre è un male non farlo. La loro scelta, come tutte quelle politiche, deriva da valutazioni etiche. La differenza tra la Giunta Fugatti e i responsabili delle politiche relative alla scuola e alla parità uomo-donna della precedente legislatura è che differisce l’etica. E se si approfondisce un po’, a voler imporre le proprie valutazioni etiche nel proprio agire amministrativo, erano stati questi ultimi, mentre la Giunta Fugatti vuole salvaguardare la primaria responsabilità educativa dei genitori, riconsegnando a loro, come la Costituzione vuole, le decisioni circa l’educazione sessuale.

La cons. Ferrari giustamente cita la diversità di uomo e donna, che merita anche per lei rispetto; tuttavia nega che da questa diversità possano discendere scelte diverse tra uomo e donna. Si tratta di una posizione ideologica di stampo vetero-femminista. Corrisponde all’esperienza comune, fondata anche su ricerche scientifiche, che le diversità tra uomo e donna nel cervello, nei ritmi biologici in età fertile, nella configurazione somatica, nelle potenzialità generative, ecc., che vi siano diversità medie tra uomini e donne, diversità che aprono a complementarietà uomo-donna che danno fondamento solido al rapporto di coppia e influiscono sui rapporti educativi, ma non solo, tra padre, madre e figli. Il constatare che tali diversità uomo-donna hanno conseguenze in parte diverse in società diverse non autorizza a considerare da rimuovere tali differenze, come fossero un condizionamento negativo. Saranno le autonome dinamiche sociali a produrre i cambiamenti, ma senza la pretesa che essi non siano a loro volta “costruzioni sociali” basati su differenze che costruzioni sociali e stereotipi non sono.

Sono i corsi miranti a cambiare, per via politico-amministrativa, i modi di interpretare la propria identità sessuale, ad essere di impronta autoritaria. Ed è quanto fatto dai sostenitori della “teoria del gender”. Bene, quindi, ha fatto la Giunta Fugatti a cautelarsi al riguardo, proprio per non continuare in un’impostazione autoritaria.

Presepi, crocefissi: contro laicità ed espressione di strumentalizzazione?

Sui giornali locali si ripetono prese di posizione critiche di orientamenti assunti dalla nuova Giunta Provinciale, in particolare dal suo Presidente Fugatti e dall’assessore Bisesti, in merito a sorveglianza della Chiesa di Santa Maria Maggiore a Trento, chiesa che fu adibita ad aula del Concilio di Trento, e all’invito a mantenere i simboli della civiltà cristiana nelle scuole, quali il crocefisso e, per il periodo natalizio, il presepe.

Due i rilievi per lo più mossi dai critici: la laicità dello stato e l’indegnità morale di coloro che mentre valorizzano luoghi e simboli del cristianesimo, di questo negherebbero fondamentali principi morali nel modo nel quale è regolato il fenomeno migratorio e il trattamento degli immigrati. Nel suo stesso editoriale dell’ultimo numero di VT pare indirettamente dire che le nuove regole non rispetterebbero i fondamentali diritti umani, richiamando la celebrazione del 70°anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani.

Nell’intervento di Dialogo aperto di Ruggero Morandi c’è già traccia di un diverso modo di concepire la laicità rispetto a quella adottata da tanti cristiani, mutuata da quella giacobina francese. E’ il modo nord-americano, già evidenziato da Alexis de Tocqueville. L’apporto alla cultura e alla politica da parte di confessioni religiose non va sterilizzato in nome dello stato fondato su una sorta di religione civile (la “dea ragione”), bensì accolto e valorizzato. Nel caso dell’Italia, dell’Europa e di tutte le culture che hanno vissuto secoli di cristianesimo, si può e si deve andare oltre anche la visione “nord-americana”, in quanto il cristianesimo come civiltà non è una delle confessioni religiose, ma quella che ha costituito la stessa identità culturale e sociale. Qualche lettera pubblicata ha richiamato il patrimonio artistico, e si può dire di ogni arte, dalla pittura alla scultura, dalla musica all’architettura, ma si deve richiamare anche lo stesso calendario ritmato dalle festività, la stessa filosofia e la nascita delle scienze naturali e sociali. Se si dovessero escludere dal legittimo rilievo pubblico tutte le espressioni di cultura che derivano dalla civiltà cristiana, l’Italia, l’Europa e molte altre parti dell’umanità sarebbero private del rilievo pubblico della loro identità. E’ cresciuta la secolarizzazione, ma gli elementi di identità cristiana sono rimasti centrali. Perché chi è deputato a perseguire quella parte di bene comune che pertiene alla politica dovrebbe sentirsi impedito di tutelare tali elementi, pena sentirsi definire clericale, integralista, ecc.? Lo stesso insegnamento della religione cattolica nelle scuole è un’espressione di avveduta laicità.

E passando al secondo rilievo, quello più mosso da alcuni ambienti cattolici, si continua a non capire come sia dovere del cristiano impegnato in politica il perseguimento del bene comune. Leggi e provvedimenti amministrativi devono essere orientati ad assicurare il bene di tutti. L’osservanza delle leggi, specie se assunte in modo democratico, è un dovere morale. Come già ho avuto modo di osservare in altra occasione, la Dichiarazione universale dei diritti umani, non prevede affatto il dovere degli stati di accogliere tutti coloro che desiderano stabilirvisi. Ogni stato può fissare delle regole ed è dovere civile osservarle. Se uno Stato ha firmato delle convenzioni internazionali ha l’obbligo di osservarle, ma non consta che lo Stato italiano le violi, neppure con le ultime decisioni democraticamente assunte. Cosa c’è di immorale, di indegno, se delle forze politiche agiscono secondo la visione di bene comune, tra l’altro condivise da tutti gli stati? Solo una visione integralista del cristianesimo pretende che l’invito all’accoglienza di ogni persona in nome della fratellanza universale si traduca in dovere di emanare norme civili che accolgano tutti coloro che vogliono stabilirsi in una comunità statuale. L’insegnamento della Chiesa, anche quello trasmesso dai Papi, compreso Papa Francesco, ha sempre riconosciuto il dovere degli Stati di determinare i flussi migratori in funzione del bene comune e in una precedente lettera a Vita Trentina li avevo segnalati. Ma anche ammesso, e non concesso, che chi stabilisce tali limiti pecchi contro Dio e contro gli uomini, non deve valere per lui il valore della misericordia? Questo vale solo per chi uccide esseri umani nel ventre materno, mette in crisi per proprio egoismo la propria famiglia, tradisce le promesse di fedeltà al proprio coniuge, non si propone di controllare eventuali pulsioni a vivere una sessualità disordinata, non si cura dell’educazione dei figli, viola i precetti della Chiesa? Più modestamente ci si dovrebbe limitare all’invito a curare in modo adeguato la transizione da un regime a un altro, in modo ragionevole

Controllare i flussi di immigrazione non è manifestazione di razzismo

di il 11 Settembre 2018 in etica pubblica, migrazioni con Nessun commento

Varie misure di controllo dell’immigrazione ed episodi di aggressioni, anche in Italia, a persone non bianche sono state occasione per lanciare l’allarme di un nascente razzismo italiano, assai pericoloso dati i precedenti storici che hanno portato a persecuzioni e a gravi discriminazioni verso persone definite di “razza diversa”, di “razza inferiore”. Si citano le politiche al riguardo del nazismo tedesco (cui anche l’Italia fascista ha in parte ceduto), dei bianchi in Sud Africa prima dell’indipendenza, ma anche dei bianchi nei confronti dei neri negli USA fino alle lotte di Martin Luther King.
Capisco che chi si oppone alle misure di controllo dell’immigrazione tenda a qualificarle come espressione di razzismo: il giudizio generalmente molto negativo nei confronti di questo viene fatto riverberare sulle politiche di controllo dell’immigrazione Tuttavia per onestà intellettuale si dovrebbe a mio avviso distinguere bene due fenomeni, quello del razzismo e quello del controllo dei flussi migratori. Il razzismo, oltre a enfatizzare le differenze “razziali” tra le persone, afferma la superiorità di una razza su tutte le altre o su una o più delle altre e ciò fornisce la legittimazione di misure discriminatorie nei confronti di chi è ritenuto di razza inferiore. Il controllo dei flussi migratori, invece, è espressione della volontà di una comunità (etnica, nazionale, territoriale) di decidere chi è ammesso a farne parte e quali sono le procedure per farlo. Lo stato moderno valorizza le comunanze etnico-nazionali e la residenza territoriale, ma in altre epoche la cittadinanza aveva altri principi organizzativi. Per rifarsi a un esempio noto a molti, Paolo di Tarso, a differenza di Pietro, aveva la cittadinanza romana, pur essendo entrambi ebrei.
Confondere il razzismo con la volontà di controllare i confini di appartenenza a una comunità civile è un’operazione intellettualmente errata (quando non è disonesta). Si può, certo, desiderare che tra gli uomini scompaiano tutti i confini, che gli uomini si sentano tutti membri di un’unica comunità civile (stato universale). Ma di fatto tra gli uomini si parlano lingue diverse, seguono religioni diverse, hanno fini diversi, vivono costumi diversi, per cui il convivere più vicini con chi parla la stessa lingua, crede nella medesima religione, ha la medesima concezione del come regolare le scelte collettive, e così via, è finora parsa la soluzione che meglio garantisce la pacifica convivenza. Troppa diversità di cultura. di storia, crea difficoltà maggiori e conflitti. Stabilire dei confini tra comunità politiche e controllare i flussi di persone, cose, messaggi attraverso essi è stata una soluzione intelligente. Altrimenti si tornerebbe a movimenti incontrollati, come nelle epoche delle crisi dei sistemi politici; si pensi per es.ai flussi di popolazioni al tramonto dell’impero romano, incontrollabili e causa di rovine.
Diversità culturali possono associarsi a diversità comunemente definite come “razziali”, perché così sono percepite principalmente in base al colore della pelle. Razzismo sarebbe stabilire regole diverse solo a seconda dell’appartenenza razziale. Ma non è razzismo se il controllo dei flussi in base a comunanze o lontananze culturali, di lingua, di costume, di religione, ecc. porta a distinguere chi è ammesso e chi no a far parte della comunità politica. Ovviamente fatti salve le convenzioni tra comunità politiche a tutela del diritto alla vita.
L’Europa a fatica cammina verso una riduzione della portata dei confini tra gli stati che ne fanno parte. Si discute tra sovranisti ed europeisti. I processi di fusione o di confederazione delle comunità politiche sono lenti e possono subire rallentamenti e fallimenti. Sbagliato qualificare di espressione di razzismo le misure che gli stati e l’Unione Europea assumono per controllare i flussi di persone attraverso i loro confini. Neppure la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, massima espressione di “universalismo”, prevede che uno stato non possa regolare i flussi in entrata di popolazioni. Immagino che non si possa giungere a qualificare tale Dichiarazione come “razzista”!

Reticenze nell’ammettere di aver indebitamente accreditato l’attendibilità di un’indagine sulla religiosità

Lettera al direttore del giornale Trentino Alberto Faustini,
leggo sul Trentino del 24 gennaio la lettera da me inviatale quasi una ventina di giorni fa in merito a quanto il giornale da Lei diretto riportava, il 7 gennaio, con grande rilievo, dei risultati di un’indagine sulla religiosità in Italia condotta da Community Media Research e la ringrazio. Ho dubitato che intendesse pubblicarla, date le critiche che avanzavo.
Avrei la colpa di non conoscere (o di non voler conoscere, lei sospetta) il prof. Marini, direttore dell’agenzia di ricerca. Sul sito web dell’agenzia che dirige apprendo che è un professore associato a Padova, con multiforme attività di ricerca e come giornalista. Sarà a causa della mia avanzata età che mi porta a non partecipare che occasionalmente a convegni di sociologia dove si conoscono i colleghi, ma non sono uso a valutare i risultati di indagini dal nome di chi le dirige.

Altra colpa che mi addebita, quella di non essermi informato sul metodo seguito dalla ricerca di Community Media Resarch, pubblicato sul sito della stessa. Le sarei grato se mi fornisce l’indirizzo web giusto; su quello che ho trovato, intitolato proprio all’agenzia, ho trovato solo articoli di giornale. Del resto, a merito del Trentino, avevo notato che le notizie sul metodo erano state pubblicate in calce all’articolo sui risultati, cosa non fatta frequentemente.

Lei specifica, nella nota di commento alla mia lettera, il significato delle sigle sulle tecniche usate per le interviste, tutte fatte via mezzi elettronici. Mi fa rilevare che la tecnica CATI (intervista telefonica) è usata per ovviare ai difetti degli altri metodi via computer. Peccato che non garantisca la non selettività. Pensi a quante telefonate riceviamo quasi quotidianamente da persone non conosciute; il più delle volte non si risponde, infastiditi. E quanti non sono negli elenchi, o hanno solo un portatile? E del resto che le persone intervistate siano state poco più di un decimo delle persone contattate è la riprova più evidente dell’operare di fattori selettivi. Se si aggiunge, poi, la necessità di ponderare i risultati per rispettare delle quote, riproporzionamento reso necessario dal non rispetto della stratificazione della popolazione secondo alcuni caratteri, non resta che insistere sulla assenza di garanzie probabilistiche sulle rappresentatività del campione e sul margine di errore. Mi sarei atteso che almeno il numero di intervistati nel Trentino -Alto Adige, meglio se distinto per italiani e tedeschi, lo avesse scritto nella sua nota. Non si vuole renderlo noto? Che sia più alto che in altre indagini nulla toglie alla mia obiezione. Se il numero è molto basso, come del tutto probabile in un campione nazionale, presentare solo percentuali serve a ingannare il lettore; l’affidabilità di quelle percentuali è propria bassissima.

Da ultimo rispondo alla sua curiosità: come mai mi sono interessato solo a questa ricerca di Community Media Research, dato che il Trentino ha pubblicato anche i risultati di altre indagini. La risposta è la più semplice: mi occupo di valori, anche in serie indagini internazionali, da oltre quarant’anni e sono stato responsabile per l’Italia dell’European Values Study e del World Values Survey. Il valore che, in base ai dati, più di altri ha conseguenze su altri orientamenti di valore è la religiosità. L’agenzia di ricerca che Lei segue si occupa per lo più di argomenti che sono assai periferici per i miei interessi scientifici. Ovvia, quindi, l’attenzione ai risultati di una ricerca sulla religiosità, tanto più che presenta risultati come “rappresentativi” con stretto margine di errore. Purtroppo, invece, l’affidabilità di quella ricerca non è statisticamente controllabile. Per i gruppi di ricerca scientifica seria, come quello citato dell’EVS, vi è un team di metodologi della ricerca tra i più competenti in Europa e per massimizzare l’attendibilità dei risultati ha fatto seguire procedure adeguate (le più adeguate possibile) non quelle che costano meno.

Mi dispiace che abbia preso un po’ di traverso i miei rilievi. Le assicuro che li ho fatti “in scienza e coscienza”.

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