Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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attività economiche

Conflitto di interesse e ipocrisia diffusa

di il 2 Gennaio 2016 in COMMERCIO con Nessun commento

in questi giorni si è aperto il dibattito sul modo nel quale sono gestite le banche, con particolare riferimento a quella dell’Etruria, per la quale il Governo non ha attivato procedure di salvataggio, facendo così pagare per il fallimento non solo gli azionisti, ma anche i possessori di un particolare tipo di obbligazioni (dette “subordinate”). Sotto accusa degli amministratori che avrebbero favorito per i prestiti loro stessi o loro amici, superando le necessarie prudenze nel concedere denaro. Il fatto che amministratore sia stato e sia anche il padre della ministra delle riforme Boschi ha avuto risvolti politici, con mozione di sfiducia alla ministra da parte del M5S.

Mi sembra di dover notare nei commenti a tale vicenda una notevole dose di ipocrisia; mi chiedo se non sia del tutto normale nella nostra società che si aspiri a cariche da cui dipendono decisioni rilevanti per interessi propri o di amici o clienti semplicemente per tutelare tali interessi. Accade così nelle cariche societarie di imprese economiche, tra le quali le banche, che hanno poteri economici rilevanti sul credito, ma accade così anche per le cariche amministrative, politiche, in associazioni che hanno qualche potere. Il “conflitto di interesse” è condizione normale: il primato spetta assai spesso all’interesse proprio o dei propri amici o clienti; quello dell’istituzione è per lo più posposto, se pur si riesca a capire quale sia, distinto da quello dei decisori.

Da sociologo non posso che rilevare come la struttura formale di un’associazione, di un’impresa o di un’istituzione raramente trovi corrispondenza in quella informale, che cerca di essere poco visibile. Le “regole” manifeste chiedono rispetto dei fini istituzionali; le esigenze di chi amministra non si compongono di necessità con i fini istituzionali, e a prevalere, di norma, sono esse.

Quanti sono gli amministratori comunali che tali sono diventati per poter controllare a vantaggio proprio o di amici o clienti le decisioni comunali in materia di urbanistica o di assegnazione di contratti di acquisto o d’opera? E come si spiega la competizione per diventare amministratori della casse rurali? Devozione verso gli ideali della cooperazione? E quella per entrare nei Consigli di Amministratori di enti vari? Disinteressato impegno per i fini dell’ente?

Le uniche cose che possono variare sono la misura nella quale si persegue l’interesse “particolare” e la procedura più o meno accorta con la quale si maschera tale interesse.

Non ci si può nascondere che vi sia che resta fedele, nel suo amministrare, solo agli interessi istituzionali; non è impossibile e dipende dalla statura morale dell’amministratore. Ma questa dipende dalle convinzioni circa il senso della propria vita. Non è un caso che nelle indagini sui valori, che da oltre trent’anni seguo, sia proprio una più forte religiosità a nutrire un maggiore rigore etico, e non solo in tema di sessualità e vita, ma anche in tema di doveri verso la collettività.

Che senso ha, allora, denunciare i tradimenti dell’interesse collettivo, lo stravolgimento dei fini istituzionali per un interesse egoistico, e nello stesso tempo svalutare la religiosità, limitarne la portata e il significato anche sociale in nome di una “laicità” che rende “sacri” valori della struttura formale, che è vuoto simulacro se manca un fondamento nei “valori ultimi”?

popolarismo e liste civiche

il Trentino del 23 dicembre pubblica un ampio intervento di Elena Albertini in merito al possibile raccordo tra formazioni civiche ed espressioni politiche del popolarismo, analizzandone le condizioni. I riferimenti sono fondamentalmente alla realtà trentina, ma il tema si sta ponendo anche su scala nazionale. Al seminario di Orvieto del 28 e 29 novembre scorsi (che ha approvato il Patto di Orvieto) partecipavano non solo formazioni politiche di ispirazione popolare, ma anche esponenti di esperienze elettorali civiche rilevanti anche a livello regionale (es. in Puglia, in Umbria). Si sta assistendo a un processo di riorganizzazione politica dell’area che alcuni chiamano “moderata” (come se quella egemonizzata da PD di Renzi non lo sia), ma che preferirei definire di ispirazione popolare, che trova radici nell’umanesimo cristiano, liberale nel senso di Rosmini e Sturzo ma anche sociale (dottrina sociale della Chiesa, mutualismo, cooperazione, sindacato, economia sociale di mercato), quell’umanesimo che ha informato di sé la Costituzione italiana.

Elena Albertini condiziona la ripresa di tale presenza politica all’emergere di un leader che sappia coagulare e attrarre consensi. Per ora tale leader non emerge, ma credo che il processo possa essere costruito ugualmente. Uno dei fattori che ha facilitato tale processo sta nella convinzione che il valore della democrazia come partecipazione non debba essere posposto alla rapidità dei processi decisionali garantiti dalla concentrazione del potere in una persona, in qualsiasi modo essa sia stata scelta direttamente alle elezioni. Tale posposizione era avvenuta prima con Berlusconi ed ora con Renzi. Tutta l’esperienza democratica della Repubblica fino ai primi anni Novanta era connotata dalla partecipazione, coinvolgendo le varie formazioni sociali; non era limitata al momento elettorale, peraltro pur esso attento alla rappresentatività, alla corrispondenza tra suffragi ottenuti e rappresentanza nelle istituzioni deliberative, principio regolativo essenziale della democrazia. La partecipazione motivava anche il rispetto delle autonomie, sociali e territoriali. Il movimento delle liste civiche esprime il desiderio di poter partecipare alle scelte di interesse della comunità, disconoscendo i partiti affermatisi negli ultimi vent’anni come strumenti efficaci per realizzare tale desiderio. E il fatto che quote rilevanti dei cittadini sentano tale movimento come positivo lascia sperare che la situazione possa cambiare. A ben pensare anche il rifiuto di votare è sintomo di distacco da un sistema politico verticista, come lo è l’innamoramento per metodi di partecipazione elettronica tipica del Movimento 5 Stelle, pur essendo tali metodi altamente selettivi, lasciando fuori dai processi partecipativi la grande maggioranza dei cittadini.

A livello nazionale le formazioni politiche interessate alla ricostruzione del popolarismo stanno orientandosi a sostenere il NO al prossimo referendum sulla riforma costituzionale voluta da Renzi (peraltro non ancora approvata in seconda lettura). La Albertini si chiede se forze politiche trentine che sostengono Renzi siano veramente ispirate al popolarismo. Il medesimo interrogativo a livello nazionale si può porre per “Area Popolare”, il gruppo parlamentare che unisce UDC (quel che resta) e NCD e che sostiene Renzi. Qualcuno si accontenta del fatto che Renzi, da giovane, è stato un popolare, ma le posizioni in tema di democrazia partecipata che egli ha espresso ed esprime (da ultimo sulle elezioni spagnole) fanno dire che semmai il valore della democrazia partecipata è espresso più dalla vera sinistra, non a caso a lui in opposizione.

Il terreno primo di incontro tra movimenti civici e movimenti ispirati al popolarismo di Sturzo e Degasperi, a livello locale e nazionale, è quindi, a mio avviso, quello della concezione della democrazia. Senza democrazia partecipata non c’è popolarismo e non c’è civismo. C’è tecnocrazia o elitismo vestiti da parvenze democratiche, che del resto non sono per lo più mancate neanche nei regimi più autoritari. Come si ricava dalle ricerche europee sui valori (EVS) è il culto dell’efficacia, della rapidità decisionale, della competenza tecnica il tarlo che sta corrompendo le democrazie oggi: popolarismo e civismo sono chiamati ad essere l’antitarlo.

il virus tecnocratico in Trentino

di il 11 Novembre 2015 in COMMERCIO con Nessun commento

Due temi di questi giorni relativi a decisioni o prese di posizione di chi amministra la Provincia Autonoma mi hanno colpito per il tipo di valori che lasciano trasparire: l’individuazione degli ambiti sovra-comunali per la gestione associata di gran parte dei servizi comunali e la proposta dell’assessore alla Sanità (qualcuno dice che non abbia fatto che rendere pubblica una posizione del Presidente della Provincia) di provincializzare in un’unica ente le case di riposo finora rette in modo autonomo.

In entrambi i casi viene mortificata l’autonomia delle comunità locali in nome di logiche tecnocratiche. Dalle indagini sui valori che da tre decenni ho seguito in Italia e in Europa si ricava come il valore della democrazia si sia ormai largamente affermato, non più eroso da orientamenti esplicitamente autoritari. Il valore della democrazia è però colpito gravemente da un virus relativamente nuovo, quello tecnocratico, contro il quale sembrano mancare difese. L’autonomia e il valore regolativo della sussidiarietà derivano direttamente dai valori della libertà e della democrazia; il virus, quindi, fa morire anche autonomia e sussidiarietà. Che ciò accada in modo così evidente con un governo di centro-sinistra, e per dei più a guida autonomista, non fa altro che confermare la gravità dell’infezione in atto, dato che della democrazia partecipata e dell’autonomia centrosinistra e autonomisti hanno sempre fatto grandi bandiere.

Ho letto le decisioni della Giunta Provinciale (assessore Daldoss, uomo di fiducia del Presidente) circa gli ambiti per l’esercizio associato; meriterebbero un’analisi specifica per capirne le ragioni. Tuttavia gli ambiti appaiono in molti casi del tutto scollegati dalle realtà comunitarie che vi vivono. Mi limito a due esempi che conosco bene. Un primo caso eclatante è quanto accaduto a Primiero: negata la deroga a Canal San Bovo, che corrisponde a un’intera valle, con molti villaggi, per di più svantaggiata e costretto il Comune di Sagron-Mis ad associarsi non al vicino nuovo Comune di Primiero-San Martino di Castrozza, ma agli altri comuni di Primiero. Un secondo totalmente privo di logica “comunitaria” è l’unire nel medesimo ambito i comuni del fondovalle orientale della Bassa Valsugana e i comuni del Tesino. I “Tesini” hanno un’identità e un’area di residenza distinte che meritavano almeno la stessa considerazione che hanno avuto altre piccole comunità, riconosciute come Comunità di valle. E si potrebbe continuare. La logica dei “numeri di abitanti” ha nettamente prevalso in modo autoritario. Esempio di ragionamento tecnocratico.

Ancora più radicale l’approccio tecnocratico evidenziato dalla proposta dell’Assessore alla Sanità sulle case di riposo. Lo stupro dell’autonomia locale e sociale vi è teorizzato in nome della “razionalità tecnica”. Con questa logica non mancherà molto tempo per vedere proposte come unificare tutti i comuni del Trentino in un solo comune provinciale (in fondo dil Trentino non è che un quartiere di Milano….), unificare tutte le scuole materne, provincializzando quelle autonome di comunità, unificare tutte le bande musicali, tutti i cori, ogni forma organizzata di attività che goda di sostegno finanziario della Provincia. Viene il dubbio che l’autonomia sociale e locale per chi amministra la Provincia non sia un fatto positivo da sostenere, ma un fardello costoso da eliminare.

Se un governo di centro-sinistra a guida autonomista percorre la strada tecnocratica che nega valori fondamentali perché portano a spese “poco razionali”, l’unica speranza per il Trentino, per un Trentino a democrazia partecipata, diffusa, ad alto tasso di autonomia locale e sociale, sta nella crescita di liste civiche. Il risultato delle ultime elezioni comunali anche in alcuni centri rilevanti del Trentino potrebbe rendere tale speranza non vana. A meno che gli autonomisti non tornino ad essere tali.

Orsi in Trentino: egemonia cultura urbana

di il 16 Agosto 2015 in COMMERCIO con Nessun commento

 

su l’Adige  l’antropologo Duccio Canestrini afferma che l’orso non è nostro nemico e che i media avrebbero la colpa di alimentare “una paura irrazionale”. Ci sarebbero ben altri pericoli. Colpa delle popolazioni umane trentine sarebbe quella di non sapere più concepire “spazi naturali selvatici”. Giusto che vi siano “zone impervie, incolte, selvagge e potenzialmente pericolose per i frequentatori disinformati”. Anacronistico sarebbe per Canestrini pensare alle esigenze di “economie di sussistenza (agricoltura di montagna e pastorizia)”.

Quanto l’antropologo Duccio Canestrini esprime rappresenta, a mio avviso, un esempio, fin troppo evidente, del modo di pensare proprio di una cultura urbana sofisticata (non quella popolare) che vuole arricchire la sua esperienza nel tempo libero con il piacere di avere, a portata di fine-settimana, la possibilità di visitare “spazi naturali selvatici”, aree pericolose. Canestrini critica giustamente un Trentino “Disneyland”, ma lui propone solo di aggiungere al Trentino Disneyland un settore “selvaggio” per frequentatori “bene informati”.

Nel Trentino vi sono cultori di tale modo di pensare, specie tra gli intellettuali urbani, ma la maggior parte della gente è di avviso opposto. Vi sono i tanti che nel bosco, anche incolto e selvaggio, vogliono andare per raccogliere funghi o altri frutti selvatici o semplicemente per godere la natura, senza timori di grossi pericoli (il pericolo del morso di vipera si può affrontare con il kit apposito antiveleno) e vi sono i non molti, ma non pochissimi, che praticano l’agricoltura e la pastorizia di montagna. Api negli alveari, pecore, capre, asini, vitelli e manze usano la flora delle aree marginali di montagna: fanno un servizio alla collettività e soddisfano desideri atavici di produrre per il piccolo consumo a Km 0; senza contare le greggi dei pastori, i quali continuano in un duro mestiere che li occupa per tutto l’anno. Perché giudicare anacronistiche le esigenze di questi cittadini? La Provincia paga i danni, ricorda Canestrini. E ancora una volta emerge la cultura urbano-industriale: tutto si misurerebbe, per questa, in denaro. Basta pagare. Il rapporto uomo-animane allevato è visto da questa cultura, che Canestrini esprime, come solo strumentale: in fondo l’avversione all’orso si spiega solo con il desiderio di chi alleva di far ammazzare il suo animale in un macello. Basta pagare e tutto è risarcito. Evidente come manchi all’antropologo esperto delle “dinamiche tra uomo e ambiente” la pur minima conoscenza del rapporto affettivo che si crea tra allevatore e animali allevati. Si curano le api, si allevano le capre e le pecore, anche per averne la produzione (miele, latte) e non solo per la carne. Ciascun animale è conosciuto, è stato curato. E’ l’allevamento industriale che rende del tutto strumentale il rapporto tra animale e allevatore, ma questo si svolge nelle stalle; l’orso o il lupo non fa ad esso problema.

Caro Direttore, finalmente anche i giornali “provinciali” hanno dato spazio alle preoccupazioni della gente, specie da quando un orso ha aggredito nei pressi di Cadine una persona. Spero che sia l’occasione anche di ripensare il rapporto tra cultura urbana di élites intellettuali e cultura popolare, per far apprezzare anche le ragioni di chi si dedica a tradizionali attività pastorali o di chi vuole passare momenti distensivi in montagna, che certo va salvaguardata da Disneyland, ma mantenuta percorribile senza grossi timori. Mia figlia scout ha dovuto spostare il campeggio dai pressi di Malga Brigolina in val Sarentino, in Alto Adige in nome del Disneyland “arricchito” che vorrebbe Canestrini. Io da molti anni allevo capre e asini e finora non ho avuto danni, ma li hanno avuti conoscenti, pur nel Trentino Orientale, meno esposto alla presenza dell’orso. Sinceramente non vedo ragioni sufficienti per sacrificare al “desideri” di persone come Duccio Canestrini, nel Trentino, in Italia e in Europa, un rapporto pacifico tra uomini di montagna e il loro ambiente. Cara Provincia e caro Ministro dell’Ambiente (UDC-Area Popolare): non vi pare giunto il momento di liberare la montagna alpina, la più antropizzata al mondo, da quella porzione di Disneyland rappresentata dagli spazi nei quali gli orsi danno l’emozione del pericolo e del selvaggio pericoloso? Conta di più chi ama queste emozioni, anche solo magari virtuali, oppure la gente che in quella montagna vive?

Divorzio breve: favorisce la stabilità della famiglia?

di il 8 Maggio 2015 in COMMERCIO, famiglia con Nessun commento

La nuova legge che riduce i tempi della separazione tra coniugi prima di giungere al divorzio è stata presentata come una vittoria dei diritti civili, come una conquista. Pare di capire che il successo completo sarebbe stato ottenuto abolendo del tutto il periodo di attesa tra decisione di separarsi e cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Se uno o entrambi i coniugi hanno perduto la convinzione che sia gratificante per loro continuare il rapporto, sarebbe inutile porre dei limiti di tempo allo stabilire un nuovo rapporto coniugale, nella speranza di una ricomposizione o di dare tempo all’eventuale coniuge abbandonato e ai figli di adattarsi alle nuove situazioni.

La preoccupazione cui la grande maggioranza dei parlamentari, di centro-destra come di centrosinistra, con l’eccezione di un manipolo di persone che si ispirano al pensiero sociale cristiano, ha dato risposta è quella di soddisfare i desideri dei contraenti matrimonio, nulla contando le responsabilità reciproche assunte verso la società, verso il coniuge abbandonato, verso i figli, specie se minori. Sarà un giudice a dirimere le questioni, sperabilmente con il minimo di costi.

V’è un dato da tenere in debito conto: il rendere del tutto facile sciogliere il legame tra coniugi incoraggia o scoraggia la stabilità della famiglia, la preparazione adeguata ad adempiere ai propri ruoli di partner e di genitore, la disponibilità a superare possibili e probabili difficoltà nei rapporti familiari?

Se posso in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo rimangiarmi una decisione, è difficile pensare che sia incentivato a riflettere molto prima di assumerla. Se invece quella decisione è irrevocabile, sono portato a pensarci su assai di più. Posso comprare via internet qualcosa che so di poter rimandare al venditore se non piace, pur se le spese del rendere sono un freno; se invece faccio un acquisto o una vendita di una casa da un notaio, la certezza dei motivi è senz’altro spontaneamente assai maggiore. Se ne deduce che quanto approvato dal Parlamento, relatori congiunti del PD e di FI, funziona come un incentivo alla dissoluzione dei matrimoni. Se ne sente il bisogno? Per dinamiche varie la nostra società, la cultura che vi prevale, porta già i legami familiari a diventare più fragili, con le conseguenze negative per i membri più deboli (figli, coniuge abbandonato). Perché incentivare tale fragilità? Perché togliere “pena” a chi non intende rispettare gli impegni assunti?

Il fatto che solo un manipolo di parlamentari si sia opposto a tale deriva individualista ed edonista e che siano parlamentari che si ispirano al pensiero sociale cristiano rende evidente come i pronunciamenti a favore della famiglia dei partiti che oggi vanno per la maggiore, che non si richiamano in modo espicito e prevalente alla visione cristiana della vita, suonino vuoti!

Renzo Gubert

Le false virtù dell’italicum

di il 22 Febbraio 2015 in COMMERCIO con Nessun commento

Al Direttore de l’Adige,

nel suo editoriale del 28 gennaio si pronuncia con favore sulla nuova legge elettorale approvata in Senato e sostenuta da Renzi e Berlusconi, accordatisi con il “patto del Nazzareno”. Secondo Lei, tale legge realizza un giusto equilibrio tra esigenza di governabilità ed esigenza di dare rappresentanza alle diverse formazioni politiche. Si sa chi vince e governa e chi perde, si superano le ingestibili coalizioni della Seconda Repubblica. Il limite dei capilista deputati nominati dai vertici dei partiti viene da Lei sostanzialmente ridimensionato affermando che gli elettori potranno scegliere la metà dei deputati. Il premio di maggioranza è condizionato a una soglia che a Lei sembra “alta” (40%) In ogni caso la nuova legge sarebbe il meglio che si potesse realizzare. E i senatori che non la volevano votare per il permanere in essa di deputati nominati avrebbero per coerenza dimettersi, essendo essi stessi stati nominati.

Avendo vissuto il disagio della neonata Federazione dei Popolari di fronte al voto favorevole dei senatori che a tale Federazione fanno riferimento, motivato con l’esigenza di favorire l’unificazione delle formazioni politiche che fanno parte del PPE, contraddicendo la nuova legge, a nostro avviso, principi fondamentali di democrazia, vorrei cercare di evidenziare dei punti poco convincenti del suo ragionamento, riconoscendo che comunque la nuova legge è migliore di quella dichiarata incostituzionale (il “Porcellum”).

Il punto di maggior dissenso riguarda la sottovalutazione del fatto che gli elettori non possono scegliersi tutti i parlamentari; Lei dice che altro non si poteva fare. Perché? Bastava che Renzi lo avesse proposto: avrebbe avuto i voti necessari. Se non lo ha fatto è perché ha condiviso con Berlusconi il desiderio del potere di nominare i deputati, almeno per una quota che, in dipendenza dai risultati, può andare assai oltre la metà. Le sembra democrazia questa? Una volta si combatteva la “partitocrazia”, che si traduceva in potere di nomina in enti pubblici, ma lasciava il diritto degli elettori di scegliere i parlamentari. Ora non fa più scandalo il potere di nomina da parte dei vertici dei partiti della maggior parte dei parlamentari? Perché poi i senatori che rivendicavano tale diritto degli elettori avrebbero dovuto dimettersi perché essi stessi figli di una legge che non ammetteva preferenze? Se la Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale tale legge anche per il mancato rispetto del diritto di scelta ha anche consentito che questo Parlamento di nominati approvi una nuova legge, perché mai questo diritto avrebbe dovuto essere negato (per essere coerenti) proprio a coloro che di parlamentari nominati non ne volevano? E’ da rimarcare come la possibilità di scelta dei parlamentari da parte dei cittadini in nulla compromette la governabilità, rimanendo dei partiti il potere di decidere chi mettere in lista.

Il Governo, per la nostra Costituzione, è legittimato a governare se ha la fiducia del Parlamento. Se il Parlamento non rappresenta in modo equo i cittadini la fiducia che esso dà non corrisponde alla fiducia della maggioranza degli italiani, neppure di quella parte che vota. E’ un bene, questo, per la democraticità di un sistema politico? Degasperi nel 1953 propose un ridotto premio di maggioranza, ma che scattava solo se c’era già la maggioranza. Allora venne definita dalle sinistre “legge truffa”. A Lei pare alta una soglia del 40%. A me pare veramente bassa: infatti il premio di maggioranza aumenta del 40% quel 40% di deputati cui i voti ricevuti darebbero diritto. Tutto si può sacrificare alla “governabilità”? Lo fanno i sistemi autoritari.

Altro contributo alla governabilità, secondo lei, verrebbe dal fatto che il premio viene dato alla lista e non a una coalizione di liste. Credo che non serva molto per capire come la tendenza ad avere un voto più degli altri si ripresenti anche per le singole liste. Queste, quindi, tenderanno a diventare più eterogenee, includendo una varietà di identità politiche. L’eterogeneità semplicemente si sposta dalla coalizione di liste alla singola lista che lotta per il premio di maggioranza. Gli eletti delle diverse identità raggruppati nell’unica lista manterranno, poi, per norma costituzionale, la loro libertà di comportamento politico. L’esperienza di questi anni lo dimostra ampiamente, in primis proprio quella dei candidati nei collegi uninominali. Io ad es. ero eletto nelle liste della Casa delle Libertà, ma poi aderivo al gruppo del CDU, così come facevano tutti coloro che, con diverse identità, confluivano nell’unica “Casa”.

Quanto poi al fatto che il sistema delle preferenze plurime sarebbe fattore di corruzione, credo che si dovrebbe riflettere sul fatto che il potere di nominare dei parlamentari può indurre (e si dice che sia successo) a concedere la nomina dietro congrui contributi al partito (quando va  bene) E’ il fenomeno della compravendita dei seggi. Il sistema uninominale, che a Lei piace, ai tempi di Giolitti è noto per la corruzione di cui era intriso. Non le pare che per combattere la corruzione serva altro che negare il diritto di scelta dei parlamentari da parte dei cittadini?

Si può dire che la nuova legge, se verrà confermata dalla Camera, è meglio del Porcellum, ma questa era già morta. Si poteva e si doveva fare di meglio!

Cordiali saluti,

Renzo Gubert

Il mio blog

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di il 16 Febbraio 2015 in COMMERCIO con Nessun commento

Ecco il nuovo blog!

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