Nel commento a una lettera di Giuliano Preghenella pubblicata martedì 23 aprile sul Trentino Lei, Direttore, mette a nudo alcuni problemi vitali per il futuro della cooperazione trentina: non solo la sua evoluzione tecnocratica, come rilevava Preghenella, ma anche la carenza di spirito di solidarietà, che rafforza i sentimenti di appartenenza.
Leggendo lettera e commento mi è venuto alla memoria un testo assai noto di sociologia, quello di Thomas e Znaniecki dal titolo (in italiano), “Il contadino polacco in Europa e in America”, il cui primo volume, sulla realtà rurale polacca di un centinaio d’anni fa, analizzava la crisi della comunità rurale, che non aveva trovato nuovi parametri riorganizzativi di fronte all’incalzare delle forze della modernizzazione che introducevano come “progresso” l’individualismo, l’edonismo e la secolarizzazione. Secondo il paradigma volto a comprendere il cambiamento sociale adottato dai due sociologi, le reazioni delle forze di difesa della tradizione comunitaria si dimostravano inefficaci e le azioni di lotta al vecchio ordine capaci solo di distruggere, ma non di ricostruire. Per ricostruire servivano leader contadini (non gli intellettuali, neppure se di origine contadina) che sapessero trovare una sintesi tra tradizione e modernità. E una delle strade suggerite riguardava proprio la cooperazione. Se nella società tradizionale questa era il modo nel quale la comunità si attivava per affrontare problemi di tutta la comunità, essendo condivisa la “definizione della situazione” e il primato dell’interesse della comunità su quello individuale, nella società nuova essa diventava lo strumento con il quale venivano meglio raggiunti gli interessi individuali dei singoli cooperatori.
E’ passato un secolo dalla formulazione di queste analisi, e quanto previsto si è verificato. La stessa cooperazione trentina, salvo eccezioni, è divenuta sostanzialmente il modo attraverso il quale i singoli realizzano meglio i loro interessi individuali, come del resto fanno i normali imprenditori singoli o associati in varie forme di società di persone e di capitale. Lei ripropone, per contro, la ricetta della cooperazione comunitaria pre-moderna, ma in un contesto nel quale l’individualismo, l’edonismo e la secolarizzazione sono divenuti tratti dominanti della cultura e della socialità contemporanea. Si fa bene a sostenere lo spirito di solidarietà, ma bisogna sapere che sarà improbabile che molti seguano l’invito a rinunciare ai propri interessi per quelli degli altri. Si sono demolite le basi culturali, con l’edonismo che induce a dare priorità al principio del piacere anziché a quello del dovere e con la secolarizzazione che ha privato i richiami etici del loro fondamento religioso. Inutile predicare la solidarietà con gli altri, quando in nome dell’interesse individuale sono culturalmente legittimate le uccisioni nel grembo materno di essere umani indesiderati, sono culturalmente legittimate le violazioni degli impegni di fedeltà, di amore, di sostegno al coniuge, quando al sofferente che fatica a continuare a vivere si offre la scorciatoia dell’eutanasia o dell’assistenza al suicidio, che libera parenti e società dagli oneri della cura.
Dobbiamo, quindi, a mio avviso, fare i conti con una cooperazione fatta di somma di “egoismi”. Cosa resta per renderla una modalità di vita economica e sociale diversa da quelle praticate da stato e mercato? Resterebbe ciò a cui fa riferimento Preghenella, la democrazia, col suo principio di “una testa, un voto”. E’ un principio cui si è già più volte derogato, dall’introduzione di vincoli che rendono complicato candidarsi per poter essere eletti a incarichi all’introduzione di un diritto di voto legato al capitale versato, sia di imprese private (da ultimo con la nuova legge sul credito cooperativo) che da imprese cooperative di servizio o di secondo e terzo livello. Ma non v’è chi abbia partecipato ad assemblee di cooperative, con alta numerosità di soci, che non possa attestare come l’esercizio della democrazia sia in esse solo formale, sia per la difficoltà dei soci a valutare tecnicamente quanto proposto all’approvazione, sia per l’interesse dei dirigenti e dei responsabili amministrativi a rendere i soci veramente partecipi delle decisioni. Si creano “cupole” di tecnici e “cupole” di amministratori, spesso legate tra loro da comuni interessi all’autoconservazione, che mal sopportano che dei semplici soci o un amministratore fuori “cupola” possano mettere in questione quanto da esse previsto. Quanto accaduto di recente alla Federazione Trentina della Cooperazione dà l’impressione che la dinamica si sia ripetuta.
Può il richiamo alla democrazia avere più ascolto di quello alla solidarietà? Certamente no, se esso non diventa un obiettivo esplicito perseguito, con apposite iniziative formative dei soci, degli amministratori, e con modifiche delle strutture di governo di cooperative che abbiano molti soci. Non basta il richiamo alla democrazia formale. Ciò che regge la cooperazione ancor oggi è il “senso del noi”, del non essere alla mercé di privati. Ma se questo “senso del noi” svanisce per pratiche decisionali oligarchiche, di una “cupola”, della cooperazione non resta più nulla, almeno di quella che abbiamo conosciuto in Trentino. Tra il senso di estraneità nei confronti di un privato che agisce per il suo profitto e quello nei confronti di vertici di imprese cooperative che puntano all’autoconservazione del loro ruolo la differenza non è poi tanta; solo l’omaggio e il rinfresco alle assemblee.
scritto 23 aprile 2019