Su l’Adige del 15 marzo Gianni Poletti commenta quanto il sito della Provincia di Trento afferma quali fondamenti della speciale autonomia del Trentino, la lunga tradizione di autogoverno e la tutela della lingua e della cultura dei gruppi che convivono nel “quadro regionale”. Quest’ultimo fondamento, che giustifica bilinguismo e proporzionale (nel pubblico impiego), non sarebbe però a suo avviso sufficiente, pesando a suo avviso forse di più la capacità di autonoma organizzazione sociale messa in campo nei secoli e che ha trovato espressione non solo nel principato vescovile, ma anche nel saper far da sé, di cui è espressione anche il movimento cooperativo (ma si potrebbe aggiungere le scuole materne di comunità, il mantenimento delle proprietà collettive e comunitarie, gli usi civici, le mutue, ecc.).
Se si dovesse fare l’analisi dei processi decisionali che hanno portato all’autonomia speciale, non vi sono dubbi che il fattore decisivo siano state l’inclusione nello Stato italiano, a seguito della prima guerra mondiale, di una parte del Tirolo germanofono, le successive politiche di italianizzazione forzata e la richiesta delle popolazioni germanofone di essere comprese nello Stato austriaco dopo la seconda guerra mondiale. Le potenze vincitrici non vollero cambiare i confini italiani a nord (fu fatto ad est) e l’Accordo Degasperi-Gruber annesso al trattato di pace consentì una soluzione praticabile, quella della speciale autonomia regionale nell’ambito dello Stato italiano a garanzia del gruppo tirolese germanofono.
Nessun dubbio che la tradizione secolare di autogoverno dei trentini non abbia avuto un qualche ruolo nei processi decisionali; semmai è stata di aiuto quando si è tradotta in un movimento politico autonomista, con l’ASAR. Ma mai decisivo. Ai trentini l’autonomia è arrivata grazie all’inclusione del Trentino nel “quadro regionale”, e tuttora è così nonostante la fortissima riduzione della portata di tale “quadro” motivata da parte del gruppo germanofono dell’Alto Adige dal non voler condeterminare le proprie scelte con i trentini e dai trentini, per gran parte, da un gretto egoismo provinciale vestito da autonomia. Ben poco ha pesato la presenza ladina, la cui costruzione come “minoranza linguistica” è per gran parte recente, specie in Val di Fassa. E lo stesso si dica per i pochi trentini germanofoni di Valle del Fersina e di Luserna. Piccole minoranze etnico-nazionali ci sono in molte regioni ad autonomia ordinaria (si pensi ai croati, agli albanesi nell’Italia meridionale o ai germanofoni del Veneto).
Ciò precisato, in base a indagini compiute su campioni rappresentativi ormai anni fa, non mi sentirei di negare che a fondamento dell’autonomia vi sia una specifica identità etnica trentina, seppur variegata da valle a valle. E tale specificità è proprio quanto, non volendolo, illustra in modo interessante anche Gianni Poletti, ossia l’essere, dei trentini, mezzi italiani e mezzi tedeschi. Si tratta di specificità di identità culturale (mescolanze), ma anche di identità etnica, derivante da migrazioni e successive integrazioni. Potrebbero aiutare ricerche sui cognomi e sui matrimoni. E specificità culturale ed etnica sono la base del sentimento dei trentini di essere “popolo”. Certamente la forte immigrazione da altre regioni specie a Trento rende i cittadini di Trento meno consapevoli di essere “popolo” con una sua identità, ma nelle valli la situazione è diversa.
Tale specificità di identità non è certo la ragione decisiva della speciale autonomia, come non lo è le capacità di autonomia sociale, la tradizione secolare di autogoverno e il forte senso di appartenenza provinciale, ma tutti questi elementi sono come un volano che consente di superare i “punti morti” del motore dell’autonomia istituzionale, dando motivazioni anche per non arrenderci alle tendenze presenti a livello nazionale di fare passi indietro nell’autonomia istituzionale. Certo è un volano che può perdere peso se la comunità trentina non attiva un progetto che contrasti il processo in atto di italianizzazione, pur esso documentato da indagini compiute. La responsabilità delle forze culturali, sociali, politiche ed economiche è chiamata in causa. Il futuro non è già scritto, non è un destino.