in questi giorni si è aperto il dibattito sul modo nel quale sono gestite le banche, con particolare riferimento a quella dell’Etruria, per la quale il Governo non ha attivato procedure di salvataggio, facendo così pagare per il fallimento non solo gli azionisti, ma anche i possessori di un particolare tipo di obbligazioni (dette “subordinate”). Sotto accusa degli amministratori che avrebbero favorito per i prestiti loro stessi o loro amici, superando le necessarie prudenze nel concedere denaro. Il fatto che amministratore sia stato e sia anche il padre della ministra delle riforme Boschi ha avuto risvolti politici, con mozione di sfiducia alla ministra da parte del M5S.
Mi sembra di dover notare nei commenti a tale vicenda una notevole dose di ipocrisia; mi chiedo se non sia del tutto normale nella nostra società che si aspiri a cariche da cui dipendono decisioni rilevanti per interessi propri o di amici o clienti semplicemente per tutelare tali interessi. Accade così nelle cariche societarie di imprese economiche, tra le quali le banche, che hanno poteri economici rilevanti sul credito, ma accade così anche per le cariche amministrative, politiche, in associazioni che hanno qualche potere. Il “conflitto di interesse” è condizione normale: il primato spetta assai spesso all’interesse proprio o dei propri amici o clienti; quello dell’istituzione è per lo più posposto, se pur si riesca a capire quale sia, distinto da quello dei decisori.
Da sociologo non posso che rilevare come la struttura formale di un’associazione, di un’impresa o di un’istituzione raramente trovi corrispondenza in quella informale, che cerca di essere poco visibile. Le “regole” manifeste chiedono rispetto dei fini istituzionali; le esigenze di chi amministra non si compongono di necessità con i fini istituzionali, e a prevalere, di norma, sono esse.
Quanti sono gli amministratori comunali che tali sono diventati per poter controllare a vantaggio proprio o di amici o clienti le decisioni comunali in materia di urbanistica o di assegnazione di contratti di acquisto o d’opera? E come si spiega la competizione per diventare amministratori della casse rurali? Devozione verso gli ideali della cooperazione? E quella per entrare nei Consigli di Amministratori di enti vari? Disinteressato impegno per i fini dell’ente?
Le uniche cose che possono variare sono la misura nella quale si persegue l’interesse “particolare” e la procedura più o meno accorta con la quale si maschera tale interesse.
Non ci si può nascondere che vi sia che resta fedele, nel suo amministrare, solo agli interessi istituzionali; non è impossibile e dipende dalla statura morale dell’amministratore. Ma questa dipende dalle convinzioni circa il senso della propria vita. Non è un caso che nelle indagini sui valori, che da oltre trent’anni seguo, sia proprio una più forte religiosità a nutrire un maggiore rigore etico, e non solo in tema di sessualità e vita, ma anche in tema di doveri verso la collettività.
Che senso ha, allora, denunciare i tradimenti dell’interesse collettivo, lo stravolgimento dei fini istituzionali per un interesse egoistico, e nello stesso tempo svalutare la religiosità, limitarne la portata e il significato anche sociale in nome di una “laicità” che rende “sacri” valori della struttura formale, che è vuoto simulacro se manca un fondamento nei “valori ultimi”?