Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Scuola dell’infanzia e compiti di cura: inversioni

di il 11 Febbraio 2023 in famiglia, scuola, servizi pubblici con Nessun commento

l’Adige ha ospitato prese di posizione in merito al prolungamento oltre l’emergenza covid dell’apertura delle scuole d’infanzia per il mese di luglio, impegnando ovviamente il personale. Da ultimo due interventi più approfonditi, che non si riducono a questione contrattuale, di un ampio gruppo di maestre e il 7 febbraio della consigliera provinciale Lucia Maestri. Da bambino ho frequentato tre anni di scuola materna (come allora si chiamava), da genitore ho mandato i miei nove figli alla scuola d’infanzia e sono stato Presidente del Comitato di Gestione in una scuola per più mandati, sono stato consulente per molti anni della Federazione Provinciale delle Scuole Materne, pubblicando al riguardo molti articoli e dei volumi in collaborazione in merito al rapporto tra genitori e comunità e all’autonomia scolastica, accompagnando con altri colleghi docenti universitari, pedagogisti e sociologi e con esperti dipendenti della citata Federazione, il progetto di “scuola di comunità” guidato dal prof. Gino dalle Fratte, che ha avuto dopo anni di impegno nazionale, anche il riconoscimento legislativo con le norme sull’autonomia scolastica. Quanto esposto dalle maestre è del tutto congruente con tutto il lavoro che a Trento, e non solo, è stato svolto dalla Federazione, che gestisce la maggior parte delle scuole d’infanzia della provincia di Trento, testimonianza ancora vitale, tra le poche rimaste, della capacità di autonomia della società trentina. Non Le scrivo, peraltro, per evidenziare esperienze, ma per mettere in luce inversioni di posizione riscontrabili nel dibattito in corso. Come Presidente del Comitato di Gestione e come esponente dell’Associazione Trentina della Famiglia e del Sindacato delle Famiglie, nonché della DC e del Movimento Popolare ho sempre sostenuto, assieme a molti altri, ad altre associazioni cattoliche, che la scuola dell’infanzia non poteva essere ridotta a servizio di custodia dei figli piccoli (come fosse un asilo nido). Il puntare ad es. sul tempo pieno, sul prolungamento d’orario, su un ampliamento del tempo e del calendario di didattica per il personale insegnante, ci sembrava ridurre il tempo educativo in famiglia e nelle iniziative formative che la comunità era in grado di offrire. La scuola dell’infanzia non poteva ridursi a “parcheggio” dei figli. La famiglia non esaurisce il suo ruolo nel mettere al mondo i figli, consegnandoli poi alla collettività, all’ente pubblico. Le misure da prendere per venire incontro a bisogni di cura dei figli dovevano essere altre, e allora si è lottato, con assessori come Pino Morandini o Paola Vicini Conci, responsabile scuola della DC, per il riconoscimento economico (assegno, trattamento fiscale) e previdenziale del lavoro di cura di chi, per farlo, rinunciava a un lavoro fuori casa, per la concessione per chi lavorava fuori casa del “congedo lungo” per maternità e prima infanzia o la possibilità di orario part-time. Da allora anche la politica nazionale ha fatto qualche timido passo in avanti e per queste misure mi sono battuto da parlamentare. Ebbene, allora la sinistra, da quella politica a quella sindacale, si poneva sul fronte opposto e, nel caso specifico, per il tempo pieno gratuito per tutti, per allargare il calendario delle attività didattiche delle maestre, avendo come obiettivo lo sgravio dei genitori e della comunità da impegni educativi, sacrificando la pluralità di modi e di ambienti di socializzazione dei bambini. La scuola materna tendeva ad essere concepita come “istituzione totale”. Oggi siamo all’inversione: una maggioranza di centro-destra spinge per ciò che un tempo voleva la sinistra e la sinistra (vedi la segretaria politica pro-tempore del PD Lucia Maestri) è orientata come un tempo lo era quello che era il centro cattolico. Non è la prima volta che la maggioranza autodefinitasi “popolare autonomista” pratica tali inversioni. Ricordo solo le politiche culturali a favore dei concerti di massa, un tempo tipiche della sinistra (vedi l’Estate Romana). Come mai? Non è per caso che le scelte politiche non siano più confrontate con orientamenti di valore “popolari autonomisti”? Ripetere errori che almeno una parte della sinistra ora evita mi pare sbagliato. L’assessore ha un patrimonio di elaborazioni pedagogiche e sul rapporto scuola-comunità uniche a livello nazionale, produttrice la Federazione Provinciale Scuole Materne. Perché ignorarle?

Lettera indirizzata a l’Adige, non pubblicata

Proteste professori per sospensione corsi di ideologia “gender”: giustificate?

Il Trentino di giovedì scorso 4 aprile ritorna sulla presa di posizione di alcuni colleghi professori dell’Università di Trento contro la decisione della Provincia Autonoma di Trento di sospendere i corsi integrativi sul “genere” e contro il convegno che in merito ha più recentemente organizzato la stessa Provincia. Si aggiungono ora anche professori di liceo. Il suo giornale parla di “rivolta dei professori contro la giunta”.

Non occorre molto per capire le dinamiche che si sono messe in atto. Ci sono stati anni nei quali una firma su un documento critico non si negava a nessuno, e questa volta era in gioco la figura di un pro-rettore, che un suo collega invano ha cercato di far ragionare anche sul “Trentino”. Un pro-rettore di quelli tosti e bene introdotti negli ambienti di sinistra se gli (le) è stata offerta la candidatura per l’elezione suppletiva alla Camera per il collegio di Trento.

Non ho mai visto nessuno dei colleghi professori protestare per i convegni a tesi organizzati dalla Provincia quando a governarla c’era la sinistra, a cominciare dal Festival del’Economia, spesso travalicato in festival della politica di sinistra. Alcuni prendevano la loro parte di gloria, grati. Ora si accusa la Giunta di riportare ad “epoche buie”, di dare “segnali e atteggiamenti di chiara impronta autoritaria e fascista”. Ridicolo. Solo perché chi ha la responsabilità della scuola pubblica di fronte ai genitori e alla comunità ha inteso evitare che, in nome della lotta al pregiudizio, si considerasse doveroso educare tutti i bambini e i giovani all’”ideologia del gender” (mascherata) e perché ha voluto organizzare un convegno che chiamasse esperti che di questa ideologia non fossero espressione, dato che a proporre questa da anni c’erano coloro che sostenevano i corsi integrativi. Ma dove sta scritto che una comunità non abbia la libertà di sentire una voce diversa, dopo che per anni ne ha sentito altre e ha dato ad esse spazio? Si ripete l’intolleranza dimostrata dalla sinistra nei confronti del recente Congresso Mondiale delle Famiglie a Verona. Nessuno osi prendere posizioni contrarie all’ideologia dominante e se lo fa, deve dare spazio anche ad esponenti dell’ideologia dominante, altrimenti è un fascista e autoritario.

Ma poco convincente anche la “rivolta dei professori” per l’intervento delle forze dell’ordine a garantire un ordinato svolgimento del convegno. A negare ai partecipanti e ai relatori la libertà di dire la propria erano i “contestatori” e la magistratura dirà se per farlo hanno sfondato una porta secondaria. Quante volte mi sono sentito negare il permesso di entrare per il rispetto di norme sulla sicurezza, data la capienza di una sala. Chi ama la libertà e lo stato di diritto non vuole imporsi con la forza e se vuole protestare per la carenza di posti, lo può fare “democraticamente”, non con lo stile da “fascismo (autoritarismo) rosso” cui contestatori di sinistra ci hanno abituato per decenni a partire dal 1968.

Spiace vedere bravissimi colleghi professori allinearsi a proteste di chiaro sapore politico, mascherate da lotta al fascismo e all’autoritarismo. Forse un po’ meno di conformismo alla cultura dominante su temi eticamente sensibili non avrebbe guastato per degli intellettuali. Caro Direttore, conoscendo alcuni di essi stento a credere che siano dei “rivoltosi”; semplicemente molti o non hanno approfondito la questione e non se la sono sentita di dire di no a un pro-rettore (pro-rettrice) su un tema che profuma di “progressismo”. Non sia mai! L’università è per il progresso, anche a costo di mettere tra parentesi lo spirito critico.

scritto 4 aprile 2019

Teoria gender e programmi integrativi nelle scuole:sbagliato evitarlo?

Sul Trentino del 31 dicembre sono riportate dichiarazioni del cons.Ghezzi e della cons. Ferrari, duramente critiche nei confronti della Giunta provinciale per aver sospeso corsi integrativi scolastici inerenti parità di genere al fine di verificare se tali corsi non fossero lo strumento per educare bambini e ragazzi alla “teoria del gender”, ossia la teoria secondo la quale l’identità sessuale sarebbe una “costruzione sociale”.

Mi auguro che la passata Giunta provinciale non abbia avallato per anni programmi scolastici integrativi che propongano agli alunni simili posizioni culturali, ma certo la veemenza con la quale i due consiglieri sopra citati hanno reagito fanno sospettare che gli amministratori di sinistra della scorsa legislatura abbiano paura che la loro operazione culturale, volta a somministrare, anche in dosi omeopatiche, la teoria del gender, venga disvelata. E per cominciare negano che una “teoria del gender” esista, il modo che ritengono più efficace per non farne scoprirne gli elementi in alcuni programmi da loro finanziati.

L’accusa alla Giunta Fugatti e agli assessori competenti al riguardo, sarebbe di essere un Giunta etica. Sorprende che uomini di cultura non abbiano coscienza del fatto che l’etica è connaturata alla politica. Questa persegue il bene comune. E il giudizio su ciò che è bene o non lo sia è proprio un giudizio etico. Quanto Ghezzi e Ferrari sostengono, ossia l’educazione degli alunni a sfuggire agli elementi di identità sessuale dovuti alla “costruzione sociale”, per essi è un bene, mentre è un male non farlo. La loro scelta, come tutte quelle politiche, deriva da valutazioni etiche. La differenza tra la Giunta Fugatti e i responsabili delle politiche relative alla scuola e alla parità uomo-donna della precedente legislatura è che differisce l’etica. E se si approfondisce un po’, a voler imporre le proprie valutazioni etiche nel proprio agire amministrativo, erano stati questi ultimi, mentre la Giunta Fugatti vuole salvaguardare la primaria responsabilità educativa dei genitori, riconsegnando a loro, come la Costituzione vuole, le decisioni circa l’educazione sessuale.

La cons. Ferrari giustamente cita la diversità di uomo e donna, che merita anche per lei rispetto; tuttavia nega che da questa diversità possano discendere scelte diverse tra uomo e donna. Si tratta di una posizione ideologica di stampo vetero-femminista. Corrisponde all’esperienza comune, fondata anche su ricerche scientifiche, che le diversità tra uomo e donna nel cervello, nei ritmi biologici in età fertile, nella configurazione somatica, nelle potenzialità generative, ecc., che vi siano diversità medie tra uomini e donne, diversità che aprono a complementarietà uomo-donna che danno fondamento solido al rapporto di coppia e influiscono sui rapporti educativi, ma non solo, tra padre, madre e figli. Il constatare che tali diversità uomo-donna hanno conseguenze in parte diverse in società diverse non autorizza a considerare da rimuovere tali differenze, come fossero un condizionamento negativo. Saranno le autonome dinamiche sociali a produrre i cambiamenti, ma senza la pretesa che essi non siano a loro volta “costruzioni sociali” basati su differenze che costruzioni sociali e stereotipi non sono.

Sono i corsi miranti a cambiare, per via politico-amministrativa, i modi di interpretare la propria identità sessuale, ad essere di impronta autoritaria. Ed è quanto fatto dai sostenitori della “teoria del gender”. Bene, quindi, ha fatto la Giunta Fugatti a cautelarsi al riguardo, proprio per non continuare in un’impostazione autoritaria.

Università di Trento: problemi che si aggravano e demoralizzazione docenti e ricercatori

di il 7 Marzo 2017 in scuola con Nessun commento

Sul Trentino di martedì scorso 21 febbraio a mo’ di editoriale il collega Gaspare Nevola ha messo in evidenza punti critici dell’attuale situazione universitaria che vanno ben oltre le difficoltà di erogazioni di cassa da parte della Provincia lamentate nei giorni scorsi dal Rettore in carica e dal Rettore precedente.

Sono ormai cinquantadue anni che, in ruoli diversi, passo le porte dell’Università di Trento e ho visto i diversi andamenti sia della didattica che della ricerca (e una volta si citava anche l’educazione permanente). Dopo la crescita tumultuosa iniziale, la crisi della contestazione, che ha colpito anche la didattica e la ricerca, si erano create le condizioni per un assetto virtuoso: lo Stato sosteneva i costi di normale funzionamento e la Provincia, liberata da questi dopo la statizzazione, integrava le risorse finanziarie soprattutto per la ricerca. Per i mandati nei quali ho diretto uno dei dipartimenti di sociologia e scienze sociali, la ricerca ha fruito di risorse che, in rapporto alle dimensioni, non avevano uguali in Italia. E’ stato il periodo dell’accreditamento scientifico dell’università di Trento a livello internazionale (e non solo europeo). L’Istituto Trentino di Cultura, con i suoi Istituti, tecnologici e umanistici, arricchiva ulteriormente la qualità della ricerca in campi specializzati.

A mio avviso la “riprovincializzazione” dell’università, verso la quale fui critico, ha fatto risperimentare ad essa le strettoie che avevano indotto Bruno Kessler, Presidente dell’Università, a uscire dal sistema Provincia. Non ne è stata l’unica causa. Meno larghe disponibilità finanziarie pubbliche, incertezze sul ruolo dell’ITC e dei suoi Istituti, politiche volte all’autofinanziamento della ricerca tramite concorsi a fondi europei e convenzioni con privati, desiderio di rettori di lasciare un segno del loro rettorato togliendo fondi alla ricerca ordinaria per concentrarli su progetti loro cari ( e l’analisi delle cause richiederebbe più spazio) hanno di fatto ridotto e concentrato le risorse dell’Università di Trento per la ricerca; lo posso dire con certezza per quella del polo sociologico, ma non mi pare che la situazione sia molto diversa in altri settori, specie del polo di città. Ai miei colleghi di Sociologia i fondi di ricerca dell’Università consentono di partecipare a qualche convegno e poco più. Negli anni ’80 e ’90 potevano consentire di fare ricerche in ogni parte del mondo, di creare centri attivi a livello nazionale ed europeo (cito il Centro Internazionale di Ricerca sulle Aree Montane, il Centro Studi Martino Martini, l’Associazione Italo-tedesca di Sociologia, con la sua rivista bilingue e seminari sul bilinguismo in Alto Adige, per limitarmi a iniziative intraprese dal prof. Franco Demarchi, cui ho partecipato). Ora il CIRSAM è morto da anni e le altre iniziative soffrono di penuria estrema di risorse. Difficile non capire come il morale medio dei docenti e dei ricercatori non sia alto. Si può, certo, competere a livello nazionale ed europeo, ma i piani nazionali talora saltano e alla capacità scientifica serve sempre più anche una capacità di fare lobby.

Sul piano della didattica pesano i limiti posti alla disponibilità di posti di docenza, essendo l’università sottoposta a vincoli stretti per la sostituzione di docenti andati in pensione, ma, come dice il collega Nevola, pesa anche la scarsa razionalità delle riforme introdotte, specialmente di quella che ha spaccato il curriculum per lo più quadriennale in una parte triennale e in una seconda biennale (detta ora corso di laurea magistrale). Nessuno pone mano a un’analisi valutativa di questa riforma (detta del 3+2). Non si esclude che per alcuni campi possa essere stata utile, ma per gli ambiti disciplinari che un po’ conosco (quello sociologico in particolare) essa ha creato per lo più confusione. Essendo il percorso biennale della laurea magistrale di fatto aperto a quasi tutti (difficile adottare logiche selettive adeguate, a prezzo della cancellazione del corso di laurea per insufficiente numero di studenti, per di più in presenza di orientamenti di riforma volti a non garantire una continuità di percorso formativo tra i due livelli di laurea) oggi un laureato magistrale in una data materia con buona probabilità ha una formazione più scadente del precedente laureato quadriennale. Nei primi tre anni si fanno meno cose che in quattro e le cose fatte nel corso di laurea magistrale non possono far conto su una continuità formativa con la laurea triennale, con grande eterogeneità delle preparazioni.
Anche per questa via, il morale medio dei docenti non mi pare alto. Non hanno il potere di cambiare e nessuno pone attenzione al problema. Si aggiunga che il potere di governo dell’Università, anche con il nuovo Statuto dell’Università di Trento, è stato spostato all’esterno, secondo logiche che si dicono ispirate al mercato. I Dipartimenti, i loro Direttori, hanno mero potere consultivo; gli altri docenti contano poco o nulla. Lo stesso Rettore può essere un esterno. Si è creato un sentimento di estraneità ai processi decisionali, che non può certo aumentare il morale.

Credo che di questo clima si debba tener conto quando si parla di Università, anche a Trento. La regione vanta autorevoli docenti universitari in Parlamento. Spero che riflettano al riguardo.

Buona scuola e autonomia: equivoci

L’editoriale di Pierangelo Giovanetti direttore de l’Adige espone i motivi per i quali i provvedimenti presi dal Governo Renzi sulla scuola, in via di recepimento-adattamento da parte del Consiglio della Provincia Autonoma di Trento, sono non solo a parole, ma anche nei fatti, a suo parere, in direzione di una “buona scuola”, data la loro ispirazione a principi regolatori quali la valorizzazione del merito degli insegnanti e l’autonomia di chiamata (con limiti) degli insegnanti da parte del dirigente scolastico.
Ricordo che fu proprio la Federazione Provinciale delle Scuole Materne, già oltre trent’anni fa, per impulso e guida dell’allora Direttore prof. Gino Dalle Fratte e con l’aiuto di un gruppo di docenti universitari, a lanciare con la Conferenza Nazionale delle Autonomie, il principio dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, concepite come “scuole di comunità”. Dopo molti anni di impegno qualcosa venne fatto a livello nazionale e ora il Governo Renzi parrebbe aver voluto proseguire. Vi è in realtà una differenza con quella impostazione: l’autonomia scolastica era fondata sulla “comunità” (che vedeva il concorso di responsabili istituzionali, genitori-studenti, docenti), mentre nei provvedimenti di Renzi la responsabilità è del dirigente scolastico, secondo un modello “manageriale” anziché “comunitario” e la differenza non è da poco.
Avendo fatto parte dell’équipe che elaborava le proposte, non potrei che approvare i nuovi provvedimenti, se nel frattempo non avessi fatto l’esperienza dell’autonomia in ambito universitario, che, contrariamente alle attese, le stesse enunciate nell’editoriale, ha invece prodotto un netto degrado della qualità dell’insegnamento universitario. La ragione? La realtà è diversa da quella teorizzata. Le università hanno usato della loro aumentata autonomia per moltiplicare corsi di studio (che consentono di creare nuovi posti di insegnamento, a danno dei fondi di ricerca), disseminare sedi universitarie staccate, chiamare a insegnare non le persone più qualificate, ma quelle più legate da relazioni personali con coloro che avevano il potere di determinare l’esito dei concorsi (e poi di chiamata). E così l’autonomia ha aumentato il “localismo” e il “particolarismo” nella scelta dei docenti, non la qualità.
Si potrebbe dire che comunque l’autonomia e la libertà di iscrizione senza vincoli territoriali porterà a penalizzare le istituzioni scolastiche (i dirigenti) che hanno fatto cattivo uso dei loro poteri. Dall’esperienza si ricava che anche ciò è per gran parte smentito dalla realtà: di fatto genitori e studenti si iscrivono dove è più comodo, quasi sempre la scuola più vicina. Il valore legale del titolo di studio livella di fatto le differenze “qualitative” delle scuole. Inoltre solo i più ricchi possono andare in sedi lontane perché più prestigiose. Senza dire che accertare il livello qualitativo della formazione scolastica impartita è alquanto difficile. Basti vedere in ambito universitario quanti difetti e distorsioni hanno i sistemi messi a punto per giudicare docenti e università, spesso sensibili a criteri “formali” più che sostanziali.
Ho l’impressione che le obiezioni che Giovanetti imputa a un sindacalismo arretrato non siano destituite di fondamento, come la già compiuta esperienza universitaria ha dimostrato. Positivi gli obiettivi che egli enuncia per la qualità dell’insegnamento; assai meno certo che gli strumenti per realizzarli siano adeguati. Soffrono di inadeguata considerazione del fatto che la realtà è diversa da quella supposta.
Da ultimo una nota sulla qualifica di “immorale” all’ostruzionismo messo in atto dalle minoranze per “vendetta”. Per esperienza fatta, maggioranze e minoranze usano dei regolamenti per affermare i propri obiettivi; non ho mai sentito la qualifica di “moralità” o di “immoralità” al riguardo. La maggioranza ha strumenti che possono mortificare le minoranze e li usano disinvoltamente (si vedano i comportamenti del Governo Renzi a proposito di riforme costituzionali e di legge sulle unioni omosessuali); le minoranze ne hanno altri. Meglio sarebbe agire secondo il merito delle questioni, ma il “bon ton” va usato prima di tutto da chi ha dalla sua la maggioranza.

(scritto il 29/5/16)

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