Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Convivenza uomo e grandi carnivori: una strada impercorribile

Nel numero del 1° agosto di Vita Trentina vi sono due pagine dedicate a lupi e orsi. L’atteggiamento complessivo degli articoli e delle interviste è quello di favorire la buona convivenza tra uomo e grande carnivoro, un atteggiamento “politicamente corretto”  bene espresso da un’operatrice della comunicazione che lavora presso il MUSE. Il fondamento di tale atteggiamento sta nell’assunzione che vi è una pluralità di interessi in campo, che vanno contemperati: “allevatori, agricoltori, cacciatori, pastori, escursionisti”. Per realizzare tale contemperamento un articolo ricorda misure di prevenzione  di  predazioni, come “reti, recinti, cani da guardiania” fino ai box abitativi in quota, portati in elicottero, recente iniziativa della Provincia, per ospitare i guardiani degli animali domestici al pascolo.

Due osservazioni sul taglio dato da VT alle due pagine. La prima riguarda l’eclissi di ogni considerazione di “bene comune”, ridotto alla visione liberale di “contemperamento di interessi” privati. Non ogni interesse merita la medesima tutela. Se in gioco vi sono “beni comuni”, gli interessi che concorrono a realizzarli dovrebbero essere prioritari. Nel caso dei grandi predatori si sta già verificando la rinuncia di allevatori, specie di aree agricole marginali, a monticare i loro animali domestici per l’accresciuto rischio di farli diventare prede di lupi e orsi. La propaganda del “politicamente corretto” afferma che la Provincia interviene economicamente per finanziare l’acquisto di reti e per pagare i danni.  Sufficiente per evitare il ritiro dall’uso del territorio? Non pare. Di reti si finanzia solo quella (una o due) per la custodia notturna, non quelle necessarie per recintare una porzione di terreno a pascolo e gli indennizzi per le predazioni non pagano il danno morale di vedere animali curati tutto l’anno dilaniati dai predatori.  L’uso del territorio previene il suo abbandono e ciò realizza bene comune. Fuorviante equiparare l’interesse degli allevatori a quello degli escursionisti e degli animalisti, che hanno solo interesse a sapere che ci sono ancora lupi e orsi che girano per boschi e pascoli, uccidendo altri animali.

La seconda osservazione riguarda l’assoluta mancanza di attenzione alle attività agricole su territori marginali. L’antropizzazione dei territori nelle aree alpine è stata ampia. Il territorio trentino, come in generale quello della Alpi centrali, è costellato di piccole aree prative, con connesse strutture edilizie rurali, un tempo usate per la fienagione e per il pascolo nelle stagioni intermedie tra estate e inverno. Si tratta di un enorme patrimonio paesaggistico che altrove non c’è mai stato o  è andato perduto (Alpi orientali e Alpi occidentali). L’agricoltura meccanizzata cura le grandi superfici, la pastorizia i grandi pascoli. Senza agricoltori e allevatori marginali part-time, che non possono sostenere spese aggiuntive per cani da guardiania o per pagare qualche pastore di paesi poveri,  le piccole superfici, i piccoli masi, sarebbero abbandonati. Si può dire che conservarne l’uso, e non solo quello semi-turistico in poche aree, è “bene comune”? Penso di sì. L’operatrice di LifeWolfsAlp EU non ne fa cenno. Si pensa a far apparire “buono” e semplicemente selvatico il lupo, per ridurne la paura,  a tutela forse di qualche raccoglitore di funghi o di qualche turista spaventato  memore della favola di “cappuccetto rosso”, ma sulle conseguenze paesaggistiche e più largamente ecologiche dell’abbandono delle aree a prato marginali non una parola.

Concerti in grandi “arene”: strada di rafforzamento della massificazione veleno dell’autonomia

L’Adige del 12 febbraio pubblica un ampio intervento del consigliere provinciale Alessio Manica, del PD, che enuncia le inopportunità dell’intervento della Provincia, in precedenza evidenziate anche da altri scritti già pubblicati, per costruire la Trento Music Arena per il concerto previsto a maggio di Vasco Rossi, primo di quelli che dovrebbero essere eventi di massa. Trovo tuutte le inopportunità elencate assai rilevanti e condivisibili. Mi dispiace che promotore di questa iniziativa sia un Presidente della Provincia che io personalmente e la lista UDC-Centro Popolare abbiamo sostenuto. Tale intervento non era nel programma e neppure è compatibile con i criteri generali di tipo politico e programmatico adottati. A quanto scritto da Manica e anche da Francesco Borzaga aggiungerei altre considerazioni, in parte già pubblicate da l’Adige. La prima e più importante è l’incoerenza di tale direzione di politica culturale con strategie di potenziamento dell’autonomia del popolo trentino. E’ un passo in avanti verso la massificazione eterodiretta, che toglie anima ai fondamenti culturali dell’autonomia, già erosi di per sè da fenomeni non controllabili e massificanti. C’è da chiedersi se non abbiano ragione coloro che rilevavano in ciò una carenza di cultura autonomista specifica della Lega, che ha avuto e ha fondamenti al riguardo diversi da quelli dello spirito autonomista autoctono trentino. Un sintomo non rilevante è lo stesso nome dato alla struttura, una denominazione inglese, come si conviene a chi si adegua ai processi di massificazione contemporanei. Il Presidente della Giunta Provinciale in un suo intervento istituzionale ha vantato la capacità della Giunta di dire sì, evitando gli immobilismi di chi pratica la cultura del no. Spero che si sia trattato di un discorso dettato da nervosismo. Non si può difendere una scelta politica solo per non dire sempre dei no. Le motivazioni politiche devono essere di altro spessore culturale, ma mancano. Conta solo attrarre gente, non importa come e perché. Coalizione popolare autonomista si è denominata la maggiorasnza di governo quando si è presentata agli elettori. Il popolarismo e l’autonomismo aborrono le massificazioni, tanto più se hanno il sapore di dipendenza da culture esterne. Avevo acquistato a suo tempo nelle vicinanze della futura Arena un terreno per costruire un’abitazione per la famiglia. Comune e Provincia hanno cambiato in fretta le norme urbanistiche che lo consentivano e rallentato i processi decisionali della domanda di concessione per impedire la realizzazione del progetto, motivando i dinieghi, anche successivi in occasioni di varianti, con la scelta di non favorire l’edificazione nello spazio fra la città e Mattarello. Constato che anche i più severi cirteri di pianificazione cedono il passo quando di mezzo non c’è una giovane famiglia con figli e e basso reddito, ma gli interessi politici di persone che contano.

Comunità trentina per Università di Trento: disinteresse?

di il 21 Febbraio 2021 in comunità, università con Nessun commento

Le prossime elezioni del Rettore dell’Università di Trento hanno dato spunto per interessanti riflessioni pubblicate da l’Adige, ultima quella del prof. Giovanni Pascuzzi. Principale suo rilievo la scarsa attenzione della comunità trentina per ciò che accade all’università. Uno dei motivi, secondo lui, la “chiusura” della stessa Università a rendere pubblici, sul suo sito, gli atti interni, come verbali dei suoi organi, delibere, ecc.. Ho sempre apprezzato le analisi di Pascuzzi, ma in questo caso mi sembra non tenga conto del reale interesse della comunità per gli atti dell’Amministrazione universitaria. L’Università è rilevante per gran parte dei membri della comunità trentina per l’offerta didattica, perché essa incide sulle prospettive di istruzione dei giovani trentini. Per conoscerne i cambiamenti di rilievo di solito basta l’attenzione ai mezzi di comunicazione, stampa e radio-TV. Un segmento molto più limitato della comunità trentina è interessato alle attività di ricerca, pochi operatori economici, politici e culturali, mentre più occasionale è l’interesse per l’attività dell’Università per l’educazione permanente o più in generale per il dibattito culturale in occasione di convegni e conferenze, per la quale anche l’attenzione della comunità non può che essere occasionale e segmentata.

L’università è un’istituzione che vive nella comunità, ma solo per una piccola parte di questa è rilevante, quella parte che si assume il ruolo di guida della comunità, guida politica, culturale, economica, che come tale vede rilevanti soprattutto le relazioni tra comunità locale e l’ambiente esterno, regionale, nazionale, europeo, globale. Il Trentino è luogo parziale di reti di relazioni sovralocali e l’Università (come per lo più gli istituti di ricerca, anche se sostenuti solo dalla Provincia, come lo era anche l’Università), è uno degli attori di tale rete. E alla comunità trentina interessa se la propria università è uno dei foci di rilievo di tali reti di relazione. A tal proposito giocano un peso grande certamente i decisori politici provinciali e nazionali, i responsabili della direzione dell’ateneo e dei dipartimenti, docenti e ricercatori, per come agiscono soprattutto a scala sovra-provinciale. Mi preoccuperei molto di più dell’assenza di Trento tra i responsabili dell’istituzione da poco fatta per la ricerca nel campo dell’Intelligenza Artificiale anziché dei pochi interventi sulla stampa sulla gestione amministrativa assente dal sito dell’Università.

L’Università si muove su orbite diverse da quelle della quasi totalità dei membri della comunità trentina e a chi di questa ha responsabilità di guida deve interessare che il soggetto orbitante non giunga a fine corsa, ma anzi renda incisivo il suo operare. Ricordo che agli inizi del mio ruolo di professore era molto sentito il problema di garantire la residenza a Trento dei professori universitari. Allora il problema stava nel fatto che i docenti non residenti correvano il rischio di orbitare presso altre università, usando Trento, senza investirvi il loro genio, le loro iniziative. Le politiche per la residenzialità, l’aumento di disponibilità di risorse per la ricerca garantite dalla Provincia, la creazione di Istituti di ricerca, specie tramite l’ITC, la chiamata di professori di grande qualità hanno reso l’Università di Trento assai attrattiva, ai primi posti nelle classifiche nazionali e per alcuni settori anche internazionali. Quel problema della residenzialità è stato per gran parte superato, l’Università di Trento ha assunto una sua entitività autonoma di prestigio. Valutiamo, allora, con metro diverso il rapporto tra comunità trentina e Università, non dal numero di lettere o articoli sulla stampa per la prossima elezione del Rettore. Ma sono certo che anche Pascuzzi è d’accordo.

Chiesa-comunità è Chiesa strutturata

di il 5 Dicembre 2020 in burocrazia, comunità, religione con Nessun commento

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sul Trentino del 14 novembre Danilo Fenner, commentatore di questioni religiose del giornale, critica l’eccessiva burocratizzazione della Chiesa cattolica e vede in ciò una delle ragioni di conflitto tra la realtà e quanto invece vorrebbe Papa Bergoglio, una Chiesa-comunità. più “sinodale”. E fa un lungo elenco “una pletora” scrive, di organismi interni della stessa Chiesa locale, della diocesi, che, tra l’altro vedono un ruolo marginale delle donne e l’onnipresenza del clero. Rilevo che dall’elenco manca stranamente un altro organismo diocesano, la “Consulta dei laici”, che raccoglie esponenti di associazioni e movimenti cattolici, dove Presidente eletta è da più mandati una donna e dove le donne sono numerose.

Leggendo l’articolo sono riandato col pensiero alla mia gioventù, nel periodo del Concilio Vaticano II e degli anni immediatamente successivi, quando la costituzione di organismi di partecipazione era visto, alla luce dei documenti conciliari, come un fatto positivo, innovativo, rispetto alla situazione precedente nella quale la gestione delle decisioni attinenti alla Chiesa, anche locale, erano di competenza esclusiva delle autorità ecclesiastiche (parroco, vescovo). Come mai tali organi di partecipazione sono giudicati da Danilo Fenner come “burocrazia”, che contrasterebbe la “sinodalità” che vorrebbe, invece, Papa Francesco? Pure il Sinodo, peraltro, è un organismo di partecipazione, in versione certo più “assembleare”, ma disciplinato da regole e da rappresentanze anche a livello diocesano, come l’ultimo tenuto nella diocesi trentina per volere del vescovo mons. Gottardi. C’è un altro aspetto della gestione ecclesiale che viene spesso criticata, il procedere per pianificazioni. Ricordo quando si criticava la gestione “episodica” di iniziative e, sulla scorta di quanto accadeva anche in campo civile, con l’affermarsi della pianificazione o programmazione (economica, sociale, urbanistica, ecc.) anche nella gestione ecclesiale e associativa si procedeva per piani (e ancora si procede) e la loro formulazione e valutazione era compito degli organi di partecipazione, ciascuno con le sue specifiche competenze. Anche a questo riguardo c’è chi rinviene in tale pianificazione non il tentativo di dare razionalità all’azione, ma un sovrabbondare di burocrazia. Meglio l’improvvisazione che nasce dall’ispirazione dello “Spirito Santo”, che soffia dove vuole e non si lascia disciplinare dalla razionalità umana.

Danilo Fenner (ma non è solo, con lui egli vede anche il Papa attuale) vorrebbe altri modelli di gestione, ispirati a una Chiesa-comunità, “non burocratica, non dottrinaria, non strutturata…. dove a decidere non sono i preti”. Risento l’eco di uno spirito “sessantottino”, che aveva destrutturato la formazione universitaria e voleva destrutturare i partiti e i sindacati, sostituendoli con “movimenti” e comitati condotti da leader, voleva destrutturare la famiglia (ricordo le “comuni” anche a Trento), e così via. Non mi pare che l’esperienza abbia dimostrato che simili modelli gestionali abbiano portato grandi risultati. E in ogni caso un periodo “movimentista” termina con l’estinzione dell’effervescenza e/o con la strutturazione, che vede regole, apparati amministrativi, “dottrine” di riferimento. Anche la “comunità” vive strutturata, come dimostra la storia delle comunità locali. La “rivoluzione permanente” non è mai durata a lungo, né nella Cina maoista nè nella Cuba castrista. Il problema da cui originano i sentimenti espressi da Danilo Fenner non sta né negli organismi di partecipazione né nella programmazione delle attività, ma nella debolezza della fede, dell’esperienza ecclesiale, nella secolarizzazione del nostro modo di vivere, che lascia uno spazio sempre più esiguo alla forza e alla portata della risposta religiosa alle questioni di senso della vita nostra e del mondo. Sempre meno persone che scelgono il sacerdozio o la vita consacrata. Sempre meno forte è il senso di appartenenza ecclesiale. Cresce la religione “self service”, “à la carte”. Desiderare una Chiesa destrutturata, perfino anche nella dottrina, è espressione di ciò.

Inviato a il Trentino e finorta non pubblicato

Riforma autonomie locali in Trentino

di il 6 Novembre 2020 in autonomia, comunità con Nessun commento

Caro Direttore Mantovan

apprezzo molto il dibattito da Lei aperto sul Trentino in merito alle autonomie locali. Il 28 ottobre una lettera di Aldo Collizzolli coglie nel segno nel parlare di “lacrime di coccodrillo” a proposito dei ripensamenti di decisioni passate, che si rivelano negative. Il coccodrillo in realtà era uno, mentre gli altri si adattavano in gran parte ai suoi voleri, pena esclusione dai premi “margherita”. Peraltro sulla destra e sulla sinistra c’erano altri che, pur di combattere l’assetto socio-politico che reggeva da decenni il Trentino, spingevano il coccodrillo ad andare oltre, proponendo di eliminare le autonomie delle piccole comunità e predicando la concentrazione del potere in un “capo”, eletto direttamente dal popolo, con potere di dissolvere la possibilità partecipativa dei soci del capo o di ogni altra espressione di opposizione al capo, e proponendo di concentrare l’amministrazione delle piccole comunità in pochi comuni.
Lei ha avuto il merito di “costringere” il coccodrillo e altri fiancheggiatori od oppositori a versare lacrime, aprendo lo spazio a ripensamenti, impossibili da non mettere nel conto data la situazione di destrutturazione socio-amministrativa che è in corso.

Il pensiero sociale cristiano è sempre stato per una democrazia partecipata e per un sistema di rapporti di potere tra i diversi livelli nei quali si organizza la comunità improntato al principio di sussidiarietà. E così lo pensò la Democrazia Cristiana degli anni Sessanta e Settanta. Poi venne la stagione della verticalizzazione delle relazioni in nome di una “democrazia decidente”, forse in qualcuno di impronta tecnocratica, ma di fatto per i più di marca “populista”. Elezione diretta dei capi-amministrazione, sistema elettorale maggioritario, nei piccoli comuni senza limite alcuno, a turno unico, marginalizzazione dei “consigli elettivi”, concentrazione dei servizi, obbligo di gestioni unificate, incentivi alla unificazione dei comuni, ecc.. Ben venga la lacrimazione!

Servono revisioni. Una di quelle annunciate, ancora avvolta nella nebbia, riguarda l’autonomia amministrativa a livello delle comunità di valle. A suo tempo il Centro-UPD (ora Centro Popolare), per siglare il patto per costruire la “Casa dei trentini”, pose la condizione di riconoscere l’autonomia anche politica a livello di valle, a correzione dei programmi di trasformare i comprensori in meri strumenti organizzativi per alcuni servizi. Dellai con il suo partito e obtorto collo anche il PATT, principali condomini della “casa”, accettarono e nacquero le “Comunità di valle”, così denominate proprio su proposta del Centro-UPD. Accanto a compiti amministrativi e di gestione per alcuni servizi, al nuovo ente che succedeva al Comprensorio venivano conservate due competenze squisitamente politiche, la pianificazione socio-economica e la pianificazione urbanistica. Non si trattava di un “capriccio” di qualcuno, ma di una scelta fondata su razionalità. La tentazione di riportare le decisioni a scala di valle alla Provincia mortificava le autonomie locali; quella (apparentemente opposta) di far decidere in merito ai Comuni riportava al disordine irrazionale nelle scelte sull’uso del territorio e sulle strategie socio-economiche. Qualcuno propone che sia una Conferenza dei sindaci a garantire razionalità, ma l’espereienza è già stata fatta nell’ultimo periodo di vita dei Comprensori, in regime provvisorio. “Io ti lascio fare questo se tu lasci fare quest’altro a me”. La logica spartitoria di piccolo raggio facilmente prevale laddove sono solo i sindaci a decidere, senza rappresentanti delle più grandi comunità sovra-comunali, per lo più a scala di valle. La Provincia ha scelto di nominare dei Commissari. Si poteva fare diversamente con più attenzione alla democrazia partecipativa, ma ciò che conta sarà il disegno di riforma, che non sacrifichi democrazia partecipativa e razionalità nel porre le condizioni per il perseguimento del bene comune a scala di valle. Sono scelte di valore, sulle quali il Centro Popolare aveva insistito anche nella stesura del programma di coalizione popolare autonomista.

Lettera inviata al Trentino e non pubblicata

Replica a Duccio Canestrini su immigrazione in Trentino

di il 22 Febbraio 2019 in comunità, migrazioni con Nessun commento

Non è la prima volta che dissento da quanto scrive Duccio Canestrini, del quale l’Adige ha pubblicato un appello nell’edizione di domenica 6 gennaio.

Prima considerazione di Canestrini: un popolo non può considerare sua proprietà il territorio nel quale vive, da considerare , invece,“res publica”, per la quale semmai v’è il dovere di bene amministrare. Ma cosa significa bene amministrare la res publica? Elemento essenziale della buona amministrazione di un territorio è regolare entrate e uscite. Non esiste governo di un territorio senza il controllo dei suoi confini: principio della Teoria Generale dei Sistemi che uno scienziato sociale dovrebbe conoscere. Il fatto che il territorio di un popolo non sia una “proprietà privata”, ma pubblica non cambia il soggetto cui inerisce la proprietà, il popolo trentino per il Trentino e il popolo italiano per l’Italia. E il popolo si dà le regole con le quali fare sintesi delle diverse valutazioni dei suoi membri. Se Canestrini non vuole limiti all’immigrazione, non per questo può imporre la sua volontà all’intero popolo.

Seconda considerazione di Canestrini: una comunità responsabile si arricchisce della diversità e quindi è giusto che si adoperi pubblicamente per investire in nuovi rapporti. Non 150 persone ma 1500 dovrebbero essere pagate dall’ente pubblico per trarre giovamento da questa “nuova linfa”. Ma non ogni diversità arricchisce. Ci sono diversità che fanno arretrare, che introducono conflitti, aumentano devianze, propongono valori opposti. Un popolo potrebbe facilitare l’entrata nel suo seno di “diversità”, ma su quali e su quanta dovrebbe poter decidere. Un ospite è gradito se invitato, non può più essere ospite né tantomeno essere gradito se si introduce senza invito. Se chi entra è un perseguitato o in situazione di pericolo per la sua vita, può essere accolto per umanità, ma se invece è uno che vuole insediarsi in territorio altrui perché vuole godere dei vantaggi del vivere in un popolo diverso dal suo, deve chiedere il permesso di farlo. E la gran parte gli attuali immigrati non è perseguitata o in situazione di pericolo per la vita,; nel loro ambiente non sono nemmeno fra i poveri, ma hanno capacità di iniziativa oltre alle migliaia di euri o di dollari che servono per pagare i trafficanti che organizzano il viaggio clandestino.

Terza considerazione di Canestrini: i trentini sono il prodotto di ondate migratorie di vario genere (Reti, Romani, Longobardi, ecc.). Non hanno quindi senso “ossessioni identitarie”. Ci portano alla “tristezza dell’uniformità”. Tuttavia non vedo pericolo di uniformità, ma semmai di dissoluzione di ogni identità culturale. Da studente di sociologia mi si insegnava che la soglia di diversità massima senza creare conflitti era stimata nel 5% della popolazione. Ora in pochi anni siamo arrivati a circa il doppio e per di più composto da giovani che fanno figli, mentre i trentini sono anziani e fanno meni figli di quanto necessario per rimpiazzare i morti. E il Trentino ha già avuto, in antecedenza, forti immigrazioni da altre regioni, specie nel secolo scorso e specie a Trento. Che poi ai reti si siano storicamente sovrapposti altri popoli nulla dice sul come i reti avessero apprezzato tali immigrazioni o come i romani avessero apprezzato quelle di popoli barbari di stirpe germanica. Si trattò di migrazioni subite dalle popolazioni locali e non vedo perché se le hanno subite allora, sia bene che le popolazioni locali le subiscano oggi, pena essere giudicati chiusi e “addormentati”. Certo, identità e appartenenze sono per gran parte “costruzioni sociali” legate alla storia dei popoli, ma non per questo non meritano rispetto e comprensione, specie dagli scienziati sociali e della cultura.

Presepi, crocefissi: contro laicità ed espressione di strumentalizzazione?

Sui giornali locali si ripetono prese di posizione critiche di orientamenti assunti dalla nuova Giunta Provinciale, in particolare dal suo Presidente Fugatti e dall’assessore Bisesti, in merito a sorveglianza della Chiesa di Santa Maria Maggiore a Trento, chiesa che fu adibita ad aula del Concilio di Trento, e all’invito a mantenere i simboli della civiltà cristiana nelle scuole, quali il crocefisso e, per il periodo natalizio, il presepe.

Due i rilievi per lo più mossi dai critici: la laicità dello stato e l’indegnità morale di coloro che mentre valorizzano luoghi e simboli del cristianesimo, di questo negherebbero fondamentali principi morali nel modo nel quale è regolato il fenomeno migratorio e il trattamento degli immigrati. Nel suo stesso editoriale dell’ultimo numero di VT pare indirettamente dire che le nuove regole non rispetterebbero i fondamentali diritti umani, richiamando la celebrazione del 70°anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani.

Nell’intervento di Dialogo aperto di Ruggero Morandi c’è già traccia di un diverso modo di concepire la laicità rispetto a quella adottata da tanti cristiani, mutuata da quella giacobina francese. E’ il modo nord-americano, già evidenziato da Alexis de Tocqueville. L’apporto alla cultura e alla politica da parte di confessioni religiose non va sterilizzato in nome dello stato fondato su una sorta di religione civile (la “dea ragione”), bensì accolto e valorizzato. Nel caso dell’Italia, dell’Europa e di tutte le culture che hanno vissuto secoli di cristianesimo, si può e si deve andare oltre anche la visione “nord-americana”, in quanto il cristianesimo come civiltà non è una delle confessioni religiose, ma quella che ha costituito la stessa identità culturale e sociale. Qualche lettera pubblicata ha richiamato il patrimonio artistico, e si può dire di ogni arte, dalla pittura alla scultura, dalla musica all’architettura, ma si deve richiamare anche lo stesso calendario ritmato dalle festività, la stessa filosofia e la nascita delle scienze naturali e sociali. Se si dovessero escludere dal legittimo rilievo pubblico tutte le espressioni di cultura che derivano dalla civiltà cristiana, l’Italia, l’Europa e molte altre parti dell’umanità sarebbero private del rilievo pubblico della loro identità. E’ cresciuta la secolarizzazione, ma gli elementi di identità cristiana sono rimasti centrali. Perché chi è deputato a perseguire quella parte di bene comune che pertiene alla politica dovrebbe sentirsi impedito di tutelare tali elementi, pena sentirsi definire clericale, integralista, ecc.? Lo stesso insegnamento della religione cattolica nelle scuole è un’espressione di avveduta laicità.

E passando al secondo rilievo, quello più mosso da alcuni ambienti cattolici, si continua a non capire come sia dovere del cristiano impegnato in politica il perseguimento del bene comune. Leggi e provvedimenti amministrativi devono essere orientati ad assicurare il bene di tutti. L’osservanza delle leggi, specie se assunte in modo democratico, è un dovere morale. Come già ho avuto modo di osservare in altra occasione, la Dichiarazione universale dei diritti umani, non prevede affatto il dovere degli stati di accogliere tutti coloro che desiderano stabilirvisi. Ogni stato può fissare delle regole ed è dovere civile osservarle. Se uno Stato ha firmato delle convenzioni internazionali ha l’obbligo di osservarle, ma non consta che lo Stato italiano le violi, neppure con le ultime decisioni democraticamente assunte. Cosa c’è di immorale, di indegno, se delle forze politiche agiscono secondo la visione di bene comune, tra l’altro condivise da tutti gli stati? Solo una visione integralista del cristianesimo pretende che l’invito all’accoglienza di ogni persona in nome della fratellanza universale si traduca in dovere di emanare norme civili che accolgano tutti coloro che vogliono stabilirsi in una comunità statuale. L’insegnamento della Chiesa, anche quello trasmesso dai Papi, compreso Papa Francesco, ha sempre riconosciuto il dovere degli Stati di determinare i flussi migratori in funzione del bene comune e in una precedente lettera a Vita Trentina li avevo segnalati. Ma anche ammesso, e non concesso, che chi stabilisce tali limiti pecchi contro Dio e contro gli uomini, non deve valere per lui il valore della misericordia? Questo vale solo per chi uccide esseri umani nel ventre materno, mette in crisi per proprio egoismo la propria famiglia, tradisce le promesse di fedeltà al proprio coniuge, non si propone di controllare eventuali pulsioni a vivere una sessualità disordinata, non si cura dell’educazione dei figli, viola i precetti della Chiesa? Più modestamente ci si dovrebbe limitare all’invito a curare in modo adeguato la transizione da un regime a un altro, in modo ragionevole

Cassa Rurale delle Dolomiti e adesione a Cassa Centrale Banca: decisioni manipolate che ne sconvolgono la natura cooperativa

Venerdì 16 ottobre scorso ho partecipato all’Assemblea straordinaria della Cassa Rurale delle Dolomiti (Fassa Primiero e Belluno); all’ordine del giorno il punto fondamentale era sulle variazioni di Statuto necessarie per aderire alla capogruppo Cassa Centrale Banca.

In precedenza all’unanimità l’Assemblea aveva deciso, come tutte le casse rurali trentine, di aderire a tale gruppo. Si erano prospettati i vantaggi, ma nulla si era detto sulle clausole del “contratto di adesione”. Queste non sono state rese note neppure nella recente assemblea, ma si è stati chiamati a decidere sulle modifiche di Statuto necessarie per la firma del contratto di adesione.

Le relazioni di Presidente, Direttore, Caposindaco e rappresentante di Cassa Centrale Banca hanno tutte illustrato le procedure in corso e i vantaggi dell’adesione in termini di “forza” del gruppo. Il materiale visivo era evidentemente stato predisposto da Cassa Centrale Banca. Nessuna delle relazioni ha evidenziato i vincoli e nessuna ha illustrato le modifiche di Statuto da approvare. E’ poi intervenuto un notaio, che ha letto a ritmo accelerato i moltissimi articoli variati dello Statuto, (visibili rapidamente anche in uno schermo, ma senza evidenziazione alcuna delle variazioni, per es. in grassetto). Sono abituato a leggere testi in fretta, ma è stato pressoché impossibile anche a me leggerli bene. Mi sono comunque accorto dello stravolgimento della cooperazione di credito che il contratto di adesione e le conseguenti modifiche di Statuto apportano. Che si sia trattato di uno stravolgimento lo ha detto anche, in un inciso, il Caposindaco.

Provo ad elencare gli elementi principali, a mio avviso, di tale stravolgimento:

1. sia in Cassa Centrale Banca, sia nella Cassa Rurale alla categoria dei soci cooperatori si è aggiunta quella dei soci finanziatori, che votano in base alle azioni comperate e non con il criterio cooperativo di “una testa un voto”. Questi nella capogruppo possono raggiungere il 40% del capitale, una quota che può facilmente consentire di diventare i soci di riferimento, come accade nelle Società per azioni;
2. Cassa Centrale Banca di fatto espropria le singole Casse rurali dell’autonomia di eleggere i propri organi (la maggioranza dei membri, il caposindaco) se a suo insindacabile giudizio non si comportano come Cassa Centrale Banca desidera; va ben oltre lo stabilire criteri di professionalità per l’eleggibilità; può rimuovere presidente e amministratori sgraditi e imporre la nomina di altri in modo da avere il controllo della maggioranza del CdA; nessuno ha il potere di controllare la fondatezza delle motivazioni delle rimozioni o dei vincoli operati della capogruppo;
3. similmente Cassa Centrale Banca interviene in ogni Cassa Rurale su personale, filiali, crediti di un certo importo, criteri di gestione dei depositi e dei crediti;
4. le casse rurali trentine non sono più vincolate ad aderire alla Federazione Trentina della Cooperazione, organo di rappresentanza e di tutela della cooperazione trentina.

Viene vantata la trentinità della capogruppo, “orgoglio per il Trentino”. Ma non viene detto che:

1. non c’è alcun vincolo al mantenimento della sede di Cassa Centrale Banca in Trentino; le casse rurali trentine in essa pesano per il 30%; e oltre alle casse rurali possono determinare la sede di soci finanziatori, probabilmente non trentini e forse di paesi stranieri;

2. è probabile che, superata la fase iniziale, neppure Presidente e Direttore di Cassa Centrale Banca saranno espressi dalle casse rurali trentine.

Il sistema delle casse rurali trentine poteva scegliere la strada scelta dalle casse rurali altoatesine, con proprio gruppo autonomo, cui sta per essere accordato, con emendamento parlamentare, di poter sostituire il sistema escogitato da chi governa banche e Banca d’Italia per il controllo del sistema delle casse rurali con un Fondo di Garanzia alimentato dalle stesse banche, come già fatto in Austria e in Germania. Tale soluzione, né quella del gruppo trentino, né quella del fondo di garanzia, non è mai stata prospettata ed ora i “poteri forti” e i vertici della cooperazione vogliono impedire che il Parlamento dia questa possibilità. Il potere, pur se subordinato, fa gola anche a loro. Vedremo se il “governo del cambiamento” si piegherà.

Sono stato tra i pochi a votare contro le modifiche di Statuto, sia per il metodo manipolatorio usato nella gestione dell’Assemblea (le modifiche non sono state spiegate, nonostante l’impegno ufficiale a “favorire la partecipazione dei soci”, ma solo lette scandalosamente in fretta e messe a disposizione su un sito internet), sia ancor più per i contenuti. Non mi sorprende il gran numero di soci che vota come i dirigenti propongono, mi sorprende che chi aveva in mano le redini del credito cooperativo abbia assecondato il tradimento dei principi fondamentali della cooperazione, senza che la comunità fosse messa sul “chi va là”. Anche in questo caso “acquiescenza” passiva? O hanno giocato un ruolo i “trenta denari” che gli interessi finanziari forti hanno fatto balenare? Spero che qualcosa giunga in extremis ad evitare che il tradimento porti alla crocefissione della cooperazione di credito trentina e italiana; gettare i “trenta denari” nel tempio, a crocefissione avvenuta serve a poco. Se ne era accorto anche Giuda.

L’uso del termine razza non implica razzismo; l’ibridazione delle razze non è necessariamente un obiettivo da condividere

di il 19 Gennaio 2018 in comunità, etica pubblica, migrazioni con 3 Commenti

In questi giorni vi sono state molte reazioni di scandalo per l’uso, in una trasmissione radiofonica, della parola “razza” da parte del candidato della Lega per la Presidenza della Regione Lombardia. L’accusa è di razzismo, avendo egli espresso il timore che un’immigrazione incontrollata, senza limitazioni, possa portare la “razza bianca” a diventare minoranza in Europa.
Al di là della fondatezza dell’affermazione (essa dipende dall’orizzonte temporale che si assume e dall’andamento delle economie e delle demografie), le reazioni, anche al netto delle strumentalizzazioni tipiche di un periodo di campagna elettorale, confermano una difficoltà italiana (e non solo, anche tedesca) ad usare il termine “razza”, certamente dovuta alla criminale persecuzione su base razziale, specie anti-ebraica, realizzata dal nazismo e che ha trovato parziale rispondenza anche nell’Italia dell’ultimo periodo fascista.
Nelle indagini sociologiche e nel linguaggio sociologico il concetto di razza è usato normalmente. Nel mondo anglosassone e nordamericano il termine “race relations” (relazioni razziali) designa anche una disciplina universitaria di insegnamento, oltre che sezioni di associazioni scientifiche di scienze sociali. L’uso del termine ”razza” non implica l’essere razzisti, quindi. Lo è chi su base razziale stabilisce diversità di stato giuridico, come è avvenuto nel XX secolo in Sud Africa o negli stessi Stati Uniti, o , in senso più lato, non riconosce a tutti gli uomini, indipendentemente dalla razza o dal colore della pelle, la medesima dignità.
Che l’uso del termine razza da parte di un politico contraddica il “politicamente corretto” in Italia non significa che le differenze razziali non siano di fatto tema oggetto di attenzione anche da parte di coloro che, anziché dirsi preoccupati per la crescente quota di non bianchi, si dicono a favore della “ibridazione”, sostenuta in questi giorni anche da autorevoli ecclesiastici, che altro non è che il risultato di riproduzione umana derivante da genitori di razza diversa. Parlare di ibridazione presuppone che ci siano uomini e donne diversi per razza che procreano insieme.
C’è poi chi considera razzista chi usa il termine razza perché in realtà biologicamente si constatano “continua” di caratteri tra le cosiddette “razze”, per cui le “razze” biologicamente non esisterebbero. Lo stesso colore della pelle, il carattere più evidente della differenziazione razziale, mostra una grande gradualità di sfumature, e non solo nei casi di “ibridazione”.
Nessun motivo per dubitare delle ricerche scientifiche in campo biologico-antropologico, ma, come dicono due autorevoli padri della sociologia, come Thomas e Znaniecki, anche se la “definizione di una situazione” fosse non corrispondente alla realtà, essa ha conseguenze reali, e l’esistenza di differenti razze umane fa parte in tutta l’umanità della “definizione della situazione”. Che i confini tra razze non siano netti non smentisce, peraltro, il fatto che tra bianchi, neri, gialli e rossi (per usare termini di uso comune) vi siano differenze riconoscibili. E da quando mondo è mondo è altresì noto che in generale i simili amano stare con i propri simili e tra i criteri di somiglianza vi sono lingua, costume, tradizioni, religione, etnia o nazione, status socio-economico e anche colore della pelle o conformazione somatica (dai piccoli pigmei e ottentotti ai glabri gialli, ai robusti mongoli ai longilinei nord-europei e negri nilotici dell’Africa centro-orientale e così via.
C’è chi reputa insopportabile vivere con i propri simili perché ama avere diversità attorno a sé? Legittimo. Ma non imponga le sue preferenze a tutti. E’ sufficiente garantire a tutti uguale dignità, che non implica mescolanze e indifferenziazioni delle collettività che si organizzano per provvedere al loro comune futuro.

Un monumento a Trento per Mauro Rostagno? Quali le sue virtù nel periodo trentino?

Il Trentino del 20 dicembre dedica due intere pagine a Mauro Rostagno. Se ne analizzano le “mille vite”, una o due delle quali a Trento, se ne ricorda la condanna per aver creato le condizioni , al circolo Macondo, dell’uso di stupefacenti, le sue varie esperienze successive che si sono concluse con il suo assassinio probabilmente per la sua lotta alla mafia. Essendo la fonte principale delle informazioni Marco Boato, leader studentesco prima a lui alternativo, ma poi suo compagno di Lotta Continua, il quadro per quanto concerne l’esperienza trentina non poteva che essere “laudativo” come quello, in altre occasioni, fornito dai contestatori sessantottini. Tuttavia una pagina e mezza del suo giornale aiuta a tracciare un profilo di interesse, senza acritiche eccessive santificazioni.

Si stacca da questo taglio la mezza pagina del Trentino con la quale si accusa Trento di “perdere tempo” nell’erigere a Rostagno un monumento (su iniziativa di un gruppo di nostalgici di Rostagno), mentre invece Torino lo celebra. Se la celebrazione torinese è quel murale riportato in foto nel suo giornale, mi sembra più espressione dei dipintori notturni di pareti spoglie che un riconoscimento pubblico, che semmai si coglie nell’intitolazione di un piazzale (immagino di periferia; siamo lontani dalle celebrazioni di Cavour, Garibaldi, Vittorio Emanuele, e altri, che hanno stravolto anche in Trentino la toponomastica tradizionale pre-annessione). In ogni caso che ragioni avrebbe Trento di celebrare Rostagno? Unica possibile ragione positiva la sua lotta antimafia in Sicilia, come molti, anche vittime, non celebrati a Trento da monumenti. Ve ne sono altre di negative e proprio riguardanti il periodo passato da Rostagno a Trento.

Di quali virtù Rostagno sarebbe testimone a Trento? Non certo di studente modello, se ha fatto saltare le luci a Sociologia per poter copiare, con i suoi compagni, una prova d’esame di matematica; non certo di esponente modello della protesta studentesca contro l’autoritarismo accademico (peraltro episodico a Trento), se in riunioni a Villa Tambosi cercava di porre rivendicazioni alle quali le autorità accademiche non potessero dare risposta positiva, perché il suo obiettivo non era di rendere meno autoritaria l’università, bensì quella di fare la rivoluzione politica; non certo di residente trentino amante della città di Trento, se il suo giudizio su Trento e i trentini era sprezzante (come quello di quasi tutti i contestatori di allora), non comprendendone, invece, i tratti di una cultura civile di lunga tradizione; non certo di democratico, viste le prevaricazioni autoritarie di assemblee e occupazioni; e per finire, non certo di giovane esemplare nella propria vita privata familiare, riconosciuto utilizzatore di numerose infatuazioni femminili “compagne rivoluzionarie”. Ma si sa, i numerosi “amori” per qualcuno, sono un tratto della “grandezza” di una persona! Ma per fortuna ci sono altre grandezze, anche nella vita privata, come quelle di Degasperi e Moro.

Rostagno ha lasciato Trento prima di terminare gli studi per andare a Milano a far la rivoluzione. Trento non era per lui il posto adatto, troppo piccola, poco industriale, culturalmente arretrata. E ha trascinato con sé compagni e compagne. L’amicizia con Curcio, della quale parla il giornale, non mi sembrava poi così visibile, anzi. Tra i due diverso era l’approccio politico, anche nelle assemblee, più sensibile a Freud quello di Curcio. Curcio studente viveva lavorando nella segreteria di un vicesindaco socialista di Trento mentre Rostagno non si sapeva di che cosa vivesse (si diceva che fosse pagato dal PSIUP). Uno studente che a Trento si occupava solo di sollevare la protesta col fine della rivoluzione di che cosa viveva? Più esemplari i molti studenti-lavoratori che lavoravano per poter studiare o quelli che vivevano del pre-salario, che perdevano se non ottenevano risultati sopra la media agli esami, e guai perderne uno. Curcio ha avuto il difetto di fare quello che Rostagno diceva: usare la violenza, anche armata, per la rivoluzione. Erano in tanti a dirlo tra i contestatori di allora: alcuni coerenti lo hanno fatto; altri, più furbastri, lo hanno solo detto, altri ancora negano di averlo mai detto. E Marco Boato ne è testimone.

Spero proprio che il Comune di Trento ci ripensi alla celebrazione con monumento: basta e avanza la targa dedicata a Rostagno a Sociologia. Per fortuna, sobria, ma a mio avviso anch’essa di troppo.

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